Spigolature / 8. L’azzurro immobile e sfuggente di Simenon

La camera azzurra di Simenon (Adelphi, 2003) mi ha provocato fin da subito una fascinazione strana. Il senso di incantamento fantastico m’ha come paralizzato per tutta la lettura e davvero non saprei spiegarne bene il perché. Di certo, però, è lo stesso senso che tiene avvinto per tutta la durata del romanzo anche il protagonista.
La storia parrebbe semplice, un classico noir con marito-moglie-amante e inevitabili morti ammazzati: Tony, marito della bionda e diafana Gisèle, ha una relazione con Andrée, capelli scuri e corpo opulento. Ed è Tony che, incalzato da giudici istruttori, psichiatri e avvocati, racconta con calma spaventevole la storia sua con Andrèe – via un ricordo che man mano si reinventa.
Quello che in assoluto più colpisce è il lasciarsi vivere di Tony, stolido animalesco automa senza nessuna apparente capacità di decidere. Quando fa l’amore per la prima volta con Andrée “era stata lei ad alzarsi la gonna fino al ventre […], era stata lei a possederlo”. Tony la rovescia in un viottolo fra le ortiche solo perché lei gli dice “Scopami, Tony!” e non sa bene perché continua a vederla nella camera azzurra, non sa se la ama, se ama invece sua moglie o se l’ha mai amata (“Non me lo sono mai chiesto”), infine smette di vederla ma senza averci veramente mai pensato (“Non avevo nessun piano preciso”). Una vita a caso, si potrebbe dire. Che trascorre anche per il lettore fra il reale e l’irreale: nella prima pagina, di fronte ad Andrée nuda divaricata sul letto, Tony sente che “in quel momento tutto era vero […]. E non solo era vero, ma era anche reale”. Eppure, più avanti, in tribunale, Tony risponde meccanicamente alle domande su di sé, su di lei e sui loro incontri e pensa: “Non era una cosa reale. Non c’era niente di reale nella camera azzurra”. Il lettore è così spiazzato, diviso fra ciò che davvero è accaduto e ciò che non lo è; fra come è accaduto e come è rivissuto. Accompagnato per tutto il romanzo dal continuo, ossessivo ripensare di Tony all’ultimo dialogo con Andrèe, quelle pacate ma precise domande di lei, che nella memoria assumono ogni volta valenza diversa, deformandosi da banalità scambiate dopo l’amore in orribile, inequivocabile mostruosità: “Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?” – aveva chiesto lei – “Certo…” – aveva risposto lui, ma distrattamente.
Tutto è avvolto da questo senso di realtà immobile eppure sfuggente, ingannevole, casuale. Lo sfondo del quieto paesino francese in cui tutti sanno tutto di tutti eppur tacciono è adeguato allo sgomento attonito di lui. La moglie triste e rassegnata è compagna ideale. Le vacanze marine di marito, moglie e figlioletta scorrono con malinconica e insopportabile abitudinarietà. Le lettere brevi e laconiche che lui nega di aver mai ricevuto dall’amante risuonano perentorie, sinistre, definitive. E intanto il lettore si sforza di capire. Tony, Andrèe, la camera azzurra: il processo sembra spiegarli e mostrarli a chi legge – e a chi legge, come alla gente in genere, “piace pensare che tutti agiscano sempre per una ragione precisa”, anche quando tale ragione manca.
Cos’è che incanta tanto, in questo romanzo dalla scrittura ferma e nitida come incisa da un punteruolo, non lo so. Di certo, non il senso appagante di una risposta o di un perché che facciano capire da quale parte stare. Anzi, affascina e terrorizza proprio l’assoluta gratuità del tutto. E resti inchiodato lì, col libro fra le mani, lo sguardo fisso e come vuoto – pensi a quanto l’assenza agghiacciante di un qualsiasi perché porti, a volte, dritto in certe camere azzurre di provincia. Quasi senza che tu te ne accorga.

[Questa spigolatura la trovate anche nella bella Blog Review of Books di Granieri]

Spigolature / 8. L’azzurro immobile e sfuggente di Simenonultima modifica: 2003-10-23T13:45:00+02:00da capecchi
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