L’arrivarci

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New York quest’anno è stata soprattutto l’arrivarci. Sono partita da Middlebury verso mezzogiorno, dopo aver visto quasi tutti andarsene prima di me; dopo che Nico si è messo con la macchina fra quella dov’ero io e quella dov’era la Cri. Ci eravamo già abbracciati e salutati, ma lui se ne stava lì in mezzo, sorrideva al suo solito modo – quello senza discussione – e guardava un po’ me un po’ lei, attraverso i finestrini. Poi Jumpin’ Joe ha fatto retromarcia e la macchina ha imboccato strade che non conoscevo. Si scendeva e si saliva e si curvava su sfondi di nuvole spesse e campi e canzoni americane che Rob aveva registrato per me. Essere accanto a Joe permetteva di ritirar fuori questo o quell’episodio senza abbandonarsi a languorose nostalgie da partenza; ad esempio si poteva ridere ripetendo fra i denti frasi come “I almost hit that mother fucker”.
Lo sporco diner dove ci siamo fermati a pranzare lungo la strada ha segnato una specie di spartiacque nel viaggio verso New York, perchè da quel momento in poi Joe ha cominciato ad accusare strani e indefiniti dolori alle sue lunghissime gambe. Così ho dovuto guidare. Guidare e guidare e guidare. Portarmi dentro New York con le mie gambe e le mie braccia. Io non lo so, ma mi aveva preso una sorta di eccitazione scomposta e palpabile, credo, quando ho cominciato a capire che lui non avrebbe mollato la sua posizione di passeggero della propria auto. Guidavo io e avevo per questo il diritto di scegliere musica e velocità, nonostante lui scandisse con la sua voce baritonale: “Gaia, lo sai che il limite è sessanta, vero? Gaia, lo sai che devi mettere la freccia quando cambi corsia?”. Io gli davo poco retta e guidavo e m’immaginavo cosa sarebbe stato gettarsi finalmente in città al volante di una grossa macchina che qui non avrei mai avuto la possibilità di guidare. Quando ho visto le prime indicazioni per New York credo di aver lanciato qualche grido indistinto, che ha fatto scuotere la testa a Joe, per cui anche l’esternazione più blanda di emozione è comunque follia.
Siamo arrivati dal Bronx e poi abbiamo cominciato a scendere giù giù giù per tutta la Second Avenue, east side naturalmente. So che qualcuno storcerà il naso, ma io avevo scelto Bublè, come sottofondo, perché avevo un bisogno decisamente fisico di uno swing leggero ballabile e metropolitano. Però dopo qualche strada incrociata ho spento e aperto i finestrini. Essere colpita in faccia dall’odore di New York, da quel misto di carne arrostita e hot-dog e gas e asfalto, questo volevo; colpita dai suoni che riconosci subito, perché una volta sentiti ti restano in testa per sempre e fai fatica ad abbandonare – le sirene i clacson qualche grido i motori le frenate la gente la gente la gente. Era bello stringersi al volante, fermarsi ai semafori e ripartire, trovarsi da un lato il giallo e dall’altro pure, con Joe che riprendeva tutto con la sua supertelecamera e io che gli dicevo “Joe, guarda dove t’ho portato!”. Era bello scendere giù giù lungo la schiena della città e vedere cambiare panorami da Harlem all’Upper east side a Broadway. Perché noi dovevamo arrivare alla Ventottesima west e allora mi sono detta: “Che diamine, mica continuo per la Seconda, qui c’è da tagliare in mezzo per Times square”. E allora alla Quarantaduesima più o meno ho girato a destra e ben presto sono rimasta com’è ovvio imbottigliata nel traffico; ma non m’importava nulla anzi ero felice, mi ballavano le mani e sono certa che gli occhi brillavano. Alzavo la testa e fuori tutto diceva New York – New York – , c’ero in mezzo – New York – ero io ed ero arrivata fin lì – New York. Attraversare la Broadway è stato irreale come un sogno; come un sogno aveva quei contorni, sfumati ma luminescenti. Ricordo solo onde continue di persone che mi pareva si schiacciassero contro i finestrini. Il fatto più strabiliante è stato sbucare all’altezza della Trentesima strada, scendere giù lungo l’Ottava, guardarmi intorno e sentirmi a casa. Appartenere a quel luogo. Quando ho fermato la macchina davanti al 253west 28 street, ho capito che New York, stavolta, era più mia di sempre. Avevo preso una macchina, lasciato il Vermont, messo su della musica, infranto un po’ di divieti ed ero arrivata lì. Nel centro di New York. Che era mia.

L’arrivarciultima modifica: 2004-09-05T20:05:00+02:00da capecchi
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5 pensieri su “L’arrivarci

  1. neanch’io riesco a credere che sei tornata. per settimane è stato come se non ci fosse niente da leggere. finalmente. (robba)

  2. ciao concittadina con (ormai poche, credo) radici, bentornata. Il mondo al di qua del bozzo, come hai notato, non è migliore di quando lo hai lasciato. Settembre resta solo il mese dei ricordi: per chi li l’ha, è sempre comunque ben più di una consolazione. Buon tutto.
    Luca

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