Exit music

 

Brad Mehldau ieri sera era diverso. O lo sembrava. O ero io che lo vedevo così, non so. Con quei capelli più lunghi, un po’ decomposti come decomposta è la sua faccia e tutto quel muoversi quando Jeff Ballard picchiava di batteria.
Nel teatro il solito caldo, la giornata alle spalle lunga, srotolata a fatica; eppure sensata.
E Brad là sul palco, pantaloni in velluto e camicia a righe strane, traslucida.
Sembrava tutto davvero diverso. Quei primi due pezzi dove la batteria si sentiva incalzare e lui appariva quasi blues, sembrava insistere su toni sconosciuti, sonorità scure, mai ascoltate prima. Nella bossa è apparso lui; epperò c’era sempre quella specie di mano appoggiata sul piano in modo insistito; un ossessivo ripetere gli stessi suoni che suonava il batterista. Che suonava il contrabbassista biondo e magro dall’aspetto sempre gentile e garbato. Ma implacabile.
Brad Mehldau ieri ha strappato dagli spettatori i chiodi che erano conficcati nei loro cervelli e li ha piantati uno a uno nel piano; deciso, sicuro, quasi religioso nel non accettare alcuna forma di distrazione. Era tutto un costruire cattedrali e chiese e monumenti altissimi da cui poi lasciarsi cadere. Giù. Con quei chiodi in mano.
C’è stata anche qualche virata che per lui poteva sembrare solare (poteva e sembrare, ho detto) ma poi naturalmente si usciva fuori nella città ritornata tranquilla e il pensiero di quello che era successo dentro prendeva corpo in modo abnorme, silenzioso.
Dentro aveva concluso suonando Exit music e da dire, infatti, non restava più nulla.

 

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(Brad Mehldau, Exit music, in Art of the trio vol. 3. Musica da rigirarsi piano nella testa. Poi spingere giù. Affondare. Bucare)

 

Exit musicultima modifica: 2007-11-11T20:51:25+01:00da capecchi
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5 pensieri su “Exit music

  1. Continuo a trovare affascinante il tuo modo di parlare di musica senza parlarne. Raccontare in maniera dotta e scapigliata, non entrare nelle logiche e nelle perifrasi del critico. Che lettura piacevole ! Ciao, un abbraccio
    Roberto

  2. Grazie Roberto. A me riesce farlo solo così. E’ anche un modo per nascondere l’ignoranza tecnica, ovviamente.

  3. Ciao Gaia,
    sono capitato per caso sul tuo blog e mi ha molto colpito il modo in cui hai descritto il concerto di Mehldal.
    E’ vero…hai ragione! Spesso dal vivo lui è così.
    Quando è in stato di grazia la sua musica ti rapisce per portarti in una dimensione dove rimani stordito dalla bellezza, dalla tensione, dal dolore e da quel senso di saturazione, di assoluto, che emergono dalle note di quel pianoforte.
    Il grande jazz, ma forse è meglio dire la grande musica, deve avere queste caratteristiche.
    Ciao.

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