Brad e il suo universo di cerchi concentrici

 

 

brad.JPGGià al sentire i passi dietro le quinte ho avuto un sussulto. Poi è apparso. C’erano Larry Grenadier in bianco e riccioli biondi, Jeff Ballard in nero e spalle forti; poi lui, Brad, solita piccola camicia nera stazzonata portata fuori dai pantaloni e capelli decomposti, del tutto suoi. Una specie di angelo terreno, un po’ spaesato ma invece solo timido; o forse tutte e due: spaesato e timido. Dopo l’inchino e il sorriso storto si è seduto al piano. Attacco pieno, grosso. E’ stato tutto un concerto di suoni fondi e controcanti blues. Dovevo aspettarmelo. L’ultimo concerto che ho sentito, ancora in trio qui a Bologna, aveva tutto questo andamento bluesy che mi aveva stupita. Stasera Brad ha ripreso quelle linee e le ha sviluppate, più in accordo con l’ultimo live al Village Vanguard che con molte delle sue prime opere. Il trio andava a volte a velocità ultrasoniche ma di più correva su rotaie; lunghe, ritmiche. Oppure come su un barcone lungo il Mississippi. Pareva infatti d’essere spesso rivoltati da quelle grandi ruote che solcano il fiume da qualche parte giù in Louisiana. Jeff Ballard era solido e roccioso, picchiava sui tamburi con ritmica incisiva e avvolgente. Sorrideva molto. Anche Grenadier sorrideva. Si appoggiava al contrabbasso con gentilezza, senza buttarglisi addosso, eppure le dita percuotevano le corde in modo forsennato; ma cantabile. Brad se ne stava seduto in bilico allo sgabello, la schiena che ogni tanto andava – dritta – tutta indietro come fa sempre lui, il braccio allungato in avanti, la bocca piegata all’ingiù, gli occhi chiusi. Gli occhi del resto erano sempre chiusi, anche quando lui non suonava e ascoltava gli assoli locomotiva di Ballard e si lasciava sfuggire, ma piano, “yeah”, anche allora erano chiusi. Li apriva un attimo solo alla fine dei pezzi, nel momento in cui si girava verso il pubblico, congiungeva le mani sulle ginocchia, si piegava poco in avanti per ringraziare, la bocca una linea dritta di imbarazzo. E poi di nuovo chiusi. Un’altra mano sinistra da far splendere. Quello che Brad ci ha dato venerdì è stato l’insistito ripetersi di un’ossessione. Melodie che uscivano una da dentro l’altra, accordi che s’immillavano, lo sbattere uniforme del bianco e del nero. Martelletti ipnotici sulle tempie degli spettatori incollati alle sedie. Mi pareva che stasera, più del solito, volesse annullarsi nella ciclicità, nella ripetizione. Ogni pezzo iniziava e finiva in un universo di cerchi concentrici, dove tutto spariva risucchiato: una specie di malebolge dantesche, tutti con la testa giù a capofitto, il demonio prigioniero e anche noi. Superfici di ghiaccio. Forse per questo non ho riconosciuto neppure un pezzo. Stavolta c’è stato meno spazio per lo struggimento, per l’elegia pensosa, per il piccolo sospiro lirico. E proprio per questo ogni volta che le mani di Brad si appoggiavano lievi sui tasti, disegnando quei tratti sospesi, melanconici, soffusamente tristi come solo lui può, beh allora capivi che era meglio che li trattenesse; era meglio che te li facesse penare; era meglio. Fra un’aggressione feroce di tasti e una fumosità da jazz club nello scantinato, ha cullato poco, è stato avaro in carezze. Ma anche le vertigini rovinose e buie di Exit music non ci sono state. Ha lasciato insomma soltanto intraguardare qualche barlume del suo meraviglioso spaventoso romanticismo moderno. Neppure negli innumerevoli bis, nello scroscio di applausi e bravo che lo hanno travolto, ha ceduto alla struggente Moon river o all’incubo di Paranoid android. La mia anima semplice è rimasta lì, sospirosa, abbandonata. Voleva Someone to watch over me, O que sera. Voleva le carezze. Voleva sentire lo strappo. Lo strappo e le carezze. E invece è come se lui avesse tenuto fermo tra le mani per tutta la sera un foglio di carta velina, tirandolo con la forza necessaria perché si allungasse ma non si strappasse. Sono rimasta aggrappata alla poltrona di quella seconda fila, tesa come se ogni secondo stesse per crollare il teatro, la volta del cielo, il mondo intero. Ma lui ha tenuto tutto in piedi. Non ha permesso che crollasse nulla. D’altra parte che lui è crudele, io, lo sapevo già. Per questo lo amo da sempre.

Brad e il suo universo di cerchi concentriciultima modifica: 2009-11-16T14:18:12+01:00da capecchi
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5 pensieri su “Brad e il suo universo di cerchi concentrici

  1. wow, che bella recensione. Sono in pochi a scatenare così l’ascolto interiore. E ancora meno quelli che lo sanno raccontare così bene.

  2. Certo, Brad pitbull …ma scodinzola come un volpino. Se poi, di cerchio in cerchio, o di onda in onda, vuoi farti cullare o annullare in uno dei suoi vortici jazz-derviscio-nirvanici, allora “Secret beach” è l’onda (o il citro) giusta. Poi, per disintossicarti, “On the beach” di Chris Rea.
    P. S. Quanto alla tua recensione, non mi esprimo… sarei di parte. È noto che sono un fan della tua ‘scrittura’.

  3. Ciao, ho trovato questa tua bellissima recensione e ho postato un link sulla pagina facebook ufficiale del Bologna Jazz Festival. Contattami se hai altre recensioni che potrebbero essere linkate e magari…per la prossima edizione 😉

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