Paolo Fresu, uno di casa

 

Paolo Fresu 2.jpgPaolo Fresu per me è casa e quotidianità. E’ tutto ciò che riguarda il buono e l’intimo. Sarà perché una volta degli alunni di terza media mi prepararono la festa di compleanno con i dolci e un pacchetto: dentro c’era Mamut, di Fresu. Oppure sarà per quella irripetibile volta che lui decise di prendere per sé un teatro e viverci dentro tre giorni interi. E io pure tutti i giorni lì, che quasi non tornavo nemmeno a casa a mangiare, per sentirlo suonare in formazioni le più diverse. O forse sarà perché quando parla ha una voce antica, che sa di pane caldo e profumi che conosci. Sicché insomma i suoi concerti sono per me feste personali e gioiose. I vecchi amici che rivedi dopo anni e gli vuoi bene uguale e passate tutta la notte a parlare e bere. Poi vanno via ma sai che tornano.

Ieri l’ho ritrovato in Cantina Bentivoglio con Uri Caine, che teneva tra le mani il suo giacchetto in pile rosso, esattamente lo stesso di quindici giorni fa al Teatro delle Celebrazioni quando ha suonato con Dave Douglas – e anche questo m’ha fatto subito sentire bene. Lui invece aveva un maglione forse blu di quelli con la zip, che si vede gli piacciono tanto perché gliene ho visti parecchi, addosso, col collo alto e la cerniera davanti. Ma poi quando suonava e la Cantina era il solito confortevole forno umano, indossava solo una camicia bianca, con le righe verticali grigie e sottili; poi pantaloni in velluto, neri.

La serata era una di quella della Bologna in grande spolvero, con nomi e personaggi seduti in giro per i tavoli. Ma neppure questo ha smosso quel nodo di morbido calore che mi stringeva. Sono partiti con una Dear old Stockolm a tutta velocità. Il flicorno che guizzava rapido e io che avevo solo un triangolo fra le grandi teste di due signori seduti davanti. Ma andava bene: era una specie di sipario dentro al quale vedevo solo lui. Che poi piglia la tromba e suona I loves you Porgy. E dopo aver letto il suo libro ora so quanto ami questo pezzo e quanto gli sia costato suonarlo, a volte – come quando c’era Gunter Schuller e lui per la prima volta perse la solita calma zen e finanche un’ottava d’estensione. Ma ora la canzone d’amore allaga le volte, l’argento brilla laggiù in fondo e la sordina attutisce il suono fino a renderlo carezza;  dunque lama. In fondo, se ci penso, io preferisco Fresu quando ha fra le mani la tromba. Ma dirlo mi dispiace, perché so quanto lui è legato al flicorno, quanto gli vuol bene. Eppure quando stringe la tromba e la punta lassù in alto io sento sciogliersi qualcosa che dalla prima vertebra mi scivola poi giù giù giù lungo la schiena e ancora, fino ad arrivare all’ultimo nervo del piede.

Uri Caine al piano suona canzoni vecchie con mani allegre, rapide. Apparecchia sotto ai soli di Fresu delle note sberleffo, veloci e buffe. Oppure si mettono tutti e due lì e suonano come in una cattedrale Sì dolce è il tormento. Rispettosi, lenti, coi suoni che arrivano a si posano netti sopra gli orli dei bicchieri e sugli angoli delle tovaglie di carta. Poi ogni tanto Caine si siede al Fender Rhodes; e magari ti ritaglia una Doxy tutta tiro e swing. Un gioiello divertito di tempi perfetti e andamenti d’altalena. Senti come dondolano e corrono e ridono, quei due.

Ma soprattutto sono i suoni lunghi della tromba. L’arrochita voce del flicorno. Il respiro. Il silenzio. Quel silenzio che intuivo ma ora so – lo so – essere così importante per lui. Musica e silenzio. Silenzio e musica. E’ quello che più di tutti è potente. Il silenzio. Oltre all’attaccamento alla terra. E l’inesprimibile senso di familiarità con tutto questo. Allora alla fine comprendi perché Fresu per te è così tanto uno di casa, uno che è sempre stato lì, nella porta vicina alla tua, sullo stesso pianerottolo, a pestare le stesse scale. Perché ha come te uno sguardo insistito verso il giù, quasi a toccarlo, abbracciarlo, nascondercisi dentro. Ma è proprio da lì, da quel basso terragno e profano, che poi si sprigiona la sua voce di cielo, di nuvola, d’aria, di vento, di luce, di tempo che passa e noi ancora lì, con gli occhi indecisi fra il giù e il su. A spezzar pane con le mani e poi mangiarlo; caldo.

Paolo Fresu, uno di casaultima modifica: 2009-11-23T10:22:00+01:00da capecchi
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10 pensieri su “Paolo Fresu, uno di casa

  1. Ah ma cavolo, Fabio. Suona anche stasera, sempre in Cantina. Da vedere. A ogni modo capita spesso da queste parti, visto che vive qui a Bologna. Prossimamente suonerà a San Lazzaro, mi pare.

  2. Io non conoscevo nemmeno uno dei titoli delle canzoni suonate, ogni tanto intuivo di averne già sentita qualcuna. Sono la solita analfabeta musicale, apprezzo però i buoni concerti, mi fido ciecamente del tuo gusto, Gaia, e Fresu, oltre che uno di casa, è una garanzia. Gli invidio, genio musicale a parte, quella calma serafica che non è vuoto, è un silenzio pieno di cose pigiate, di un tutto caldo che ti fa stare bene, che interrompe il tempo e ti culla, ti consola.

  3. Che dire?…. Bè intanto grazie, grazie di cuore per queste bellissime frasi che premiano il mio lavoro e la mia passione ben al di là delle mie più rosee aspettative. E poi brava, anzi bravissima, scrivi veramente molto bene e in modo molto poetico, si sente forte in te il dono di saper trasformare le sensazioni in parole. Sapere che un evento come quello dei concerti di Paolo e Uri da noi hanno ti sono serviti da ispirazione è per me un segno importante, uno sprone a continuare a non smettere malgrado le tantissime difficoltà. La prossima volta che vieni, ti prego presentati, fatti riconoscere, vorrei poterti parlare.
    Un abbraccio
    Giovanni

  4. Giovanni, grazie a te. La prossima volta che passerò da quelle parti non mancherò di palesarmi. A presto – prestissimo.

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