Istanbul, l’imprendibile

taksim tunel.JPGMentre percorro in taxi la strada dall’aeroporto al centro di Istanbul, mi guardo intorno e vedo Casalecchio di Reno; o i palazzoni del Pilastro; ma anche certi svincoli più desolati dell’asse attrezzato. Poi allo smilzo tassista in giacca traslucida grigia suona il cellulare e dentro la macchina ecco “Lasciatemi cantaaaare, sono un italiano”. Fuori dal finestrino c’è un mare piatto e opaco; più parchi spogli con gente che si scatta le foto o mangia seduta sulle panchine. Prima d’arrivare, ci inghiotte un muro lento di auto – fuori intanto palazzi rovinati, strade affollate, venditori d’acqua e di ricariche telefoniche. Ci passano accanto gli autobus, vecchi, con dentro molti uomini che hanno tutti lo stesso sguardo: quello di chi non va da nessuna parte in particolare, ha mille ore di viaggio alle spalle e potrebbe averne altrettante davanti senza che nulla cambi. Occhi in un’attesa senza fretta, vacua. Occhi senza progetti. Mi sento per un attimo sgomenta ma poi preferisco scollarmi di nero, salire su scarpe da signorina a modo e incamminarmi a Beyoglu per una strada fitta di gente, negozi, luci dondolanti senza che sia Natale.

Il 360 se ne sta lucido e vibrante al settimo piano di un palazzo fatiscente con un tipo lungo e secco e un altro vecchio e grasso che ci guardano dal sottoscala mentre si fa la fila davanti all’ascensore: i due hanno lo stesso sguardo di quelli sull’autobus; ma loro non stanno andando da nessuna parte. Sono  lì, fermi, e non fanno nulla. La grande terrazza del ristorante si apre su tutta la città e forse l’aria fredda di metà maggio, forse il vino pessimo o tutte le persone nuove a cui ho stretto la mano mi fanno sentire bene. Bevo vino, poi tè bollente, guardo la città luccicare là sotto, mangio meze indistinguibili nel buio e dico le mie due o tre parole d’inglese. Sorrido molto. Sorriderò molto per tutto il tempo di questa vacanza.

luci.JPGLa mattina dopo girare per le strade è trovarle deserte, spiare dietro i portoni dischiusi e umidi, guardare l’uomo coi baffi che annaffia la verdura con una pompa. Cercare di non farsi schiacciare dal tram rosso che fa su e giù tutta Istiklal caddesi. Qualche gatto raspa nella spazzatura e Burak ci guida discreto attraverso anfratti e tavolini bassi. Ha una voce buona, occhi attenti, gentilezza: mi piace. Mentre bevo un caffè così denso da smerigliare la lingua, osservo la bambina libano-tedesca seduta di fronte a me e sento più forte la mancanza della Nina: dov’è? Perché non è con me in questa città che stenta a entrarmi dentro? Ma è già tempo di prendere un pulmino, fare all’incontrario le strade con il sottopasso delle biciclette appese e arrivare a Sultanhamet.

Mi aggiro per l’immenso Topkapi e dentro Aya Sofya con tutto quell’oro, le scritte arabe e le volte collassate e poi ricostruite. Io che non seguo una parola delle spiegazioni, mi annoio, non m’interessa sapere chi ha fatto cosa ma voglio solo guardare, chiacchierare, girovagare in questo posto che mi sfugge, inseguire i fazzoletti delle donne, annusare la carne bruciata e l’aspro del pesce. Guardo in su, cerco minareti, cerco cupole stondate e gialle, cerco luci azzurre, cerco l’oriente e lo trovo: ma qua dentro non mi si muove nulla. E’ bello, sì, ma mi piace di più pranzare con il mar di Marmara laggiù sotto, mille accenti inglesi diversi e ancora mille antipasti – le melanzane ripiene, l’hummus sul pane, quei sapori un po’ greci un po’ chissà, il kebab al sesamo. Accanto ho Jarmo, di fronte Graham, più in là Tor, là dietro Kojsto e in fondo Murat. Arriva la fanciulla vestita di veli e porta baklava al pistacchio. Arrivano i camerieri con la giacca scura e versano il caffè da minuscole brocche di rame: lo vedo scendere pastoso e sporco giù nelle tazze. L’aria è piena di leggeri ciuffi bianchi che volano qua e là e si fermano fra i capelli. Quando c’inabissiamo nella Basilica Cisterna, gocciola dappertutto, si scivola, si traguarda oltre le colonne e oltre le luci tremule: è un sottomondo romantico e suggestivo, da cui però non vedi l’ora di fuggire. Vuoi l’aria. Via, via, via. Sicché camminando s’arriva al Gran Bazar. Non so quante strade che s’incrociano, volte dipinte, ciotole di tutti i colori, lampade cappelli tappeti bicchieri pantofole veli anelli scatole pantaloni e collane di poco prezzo, brutte. Ma brutte. Come quasi tutto qua dentro. Eppure tutto insieme, così, un oggetto ammassato sull’altro, quasi ti piace, quasi pensi: in fondo è bello, guarda. Ma, di nuovo, è più bello fermarsi su una pancaccia, una stoffa a righe buttata sul tavolo, ordinare un altro the e parlare. Dietro c’è l’omino delle nocciole; tutto intorno, il sole che vien giù portando una stanchezza assoluta. Non comprendi questo posto ma stai bene, ridi. Che t’importa, in fondo?

 

merenda in barca.JPGÈ però la sera che cominci a capire qualcosa. Cammini per le vie che si sfaldano, in mezzo a matasse di persone che seguono percorsi imprevedibili, l’asfalto bagnato per terra e i locali che scoppiano: allora te ne accorgi. Questa città non ti appartiene, non ti ci riconosci, non ha nulla di tuo. Lo sai tu, lo sa lo svedese con cui parli, lo sa il tedesco che siede di fronte a te a tavola. Ci scherzate tutti un po’ su; ma con dentro, forse, qualche bava di disagio. Sei stata seduta a una lunga tavolata in quell’assurdo posto del Karavansaray, hai visto la ragazza dai milioni di capelli e di fianchi che ballava la danza del ventre, hai cantato e riso e fatto ridere e lasciato tutto il cibo nel piatto. Sei stata – per davvero – felice. Ma non era la città, non era questa musica che non ti piace e questo caffè che al terzo sorso è da buttare. Eri tu. Erano le persone che venivano da tutto il mondo e stavano lì con te. Ecco, sì. La città attraverso il sorriso incredibile del sudafricano e la sagoma vichinga del norvegese; l’accento strascicato del brasiliano e la risata rotonda dell’australiana. Certo, attraversare il Bosforo in barca, col sole e il vento e gli alberi verdi e rosa sulla riva e uno simitçi da addentare non è stato roba da poco. Ma il segreto di questi giorni, insomma, sta tutto da un’altra parte. Istanbul brilla e marcisce lontana da te, del tutto estranea, imprendibile. La sua meraviglia è mostrarti chi sei, quanto ami ciò che hai. Ciò che tieni vicino. La via che scegli sempre di fare.

 

Istanbul, l’imprendibileultima modifica: 2011-05-17T23:08:55+02:00da capecchi
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