Whiplash: frullano le bacchette e il tempo resta immobile

 

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Lo senti quasi, l’odore misto di ferro e saliva che fanno gli ottoni. Ed è una roba che piglia allo stomaco. Fa male, e fa bene, perché è memoria di qualcosa che una volta chissà se hai avuto sul serio. Ti sembra di sì, sì certo, ma però. Poi i colpi secchi e terribili della batteria. Sempre più veloci, sempre più veloci. Le mani che grondano sangue e il sangue che cola giù sulla pelle del tamburo e tutto s’impasta di quell’umore dolciastro che solo chi ha suonato mai per davvero può sapere cos’è; e in che punto esatto della gola si trova.   

J.K . Simmons ha braccia enormi, una maglietta nera che tira sui bicipiti, e alza un pugno nodoso per fermare i musicisti, che restano immobili o ripartono così, in sincrono perfetto col volere spietato di un despota dagli occhi grandi, blu, spaventosi. Che inghiottono tutto. Non mi frega niente di che messaggio porta il mostro con sé. Non me ne frega dei valori morali, del bla bla, del buon maestro che deve spronare gli allievi. “Clean the blood off my drumset”: perchè vedi, è cinema, baby, e non mi deve insegnare nulla. Voglio saltare sulla seggiola, metter le mani di fronte agli occhi, aggrapparmi forte a un braccio e dire: oh!

Miles Teller picchia come un treno. Corre, rotola, pesta, arranca, piange, recupera, suda, suda, gocciola, sanguina, si fa schiacciare sotto una macchina ed eccolo lì, riparte. Con quella faccia appena abbozzata, di indefinita giovinezza. Il piatto nel buio del teatro vibra d’oro e sudore, sembra vivere da solo eppure sono lui, e quell’altro, che lo fanno ringhiare così. Così tanto e così bene. Il tamburo ha schianti potenti, regolati direttamente sul ritmo delle tempie che pulsano. I colpi rimbombano compatti dentro ogni angolo del corpo.

Caravan è uno dei Duke Ellington preferiti, ma quasi non lo riconosci. Arriva slabbrato, eppure con ritmiche tese di forsennata precisione. Di crudeltà calcolata, dolorosa. Ma dio il piacere.

La ragazzetta seduta a mangiare la pizza sparisce scialba dietro la mancanza di una qualunque idea. Il padre guarda da dietro una porta e soffre e sta lì ma forse non capisce, non si sa. Però c’è. La gente non esiste, il pubblico non esiste, forse il cinema tutto intorno non c’è più, è stato risucchiato. Perché c’è solo la batteria, ci son solo gli occhi di Teller e di Simmons e stùmp stùmp sciàf stutùmp: “What are you doing, man?” Non ti fermi? “I’ll cue you”. Te lo do io il segnale, ti dico io quando. Ti dico. Io. Quando. Fuck you. E allora arriva quell’attimo in cui  il mostro guarda il ragazzino e finalmente lo vede. Capisce. Lo ha sempre avuto di fronte ma non lo ha mai visto. Adesso sì, eccolo, è proprio lì. Ha trovato il suo Charlie Parker. Lui e le sue bacchette che frullano, schizzano, strappano. Il sudore balla sul tamburo, è tutto ringhio, velocità, legno, pelle, respiro corto, poi assenza di respiro e ancora sangue. Si rallenta, si rallenta, piano, il cuore batte un colpo a vuoto. Si riparte, si va, si va via, ci si getta a precipizio lontano, laggiù da qualche parte dove tutto brilla della luce di un palco, degli sguardi gettati sopra l’orchestra, di quel momento in cui il tempo resta immobile, miracoloso, per un attimo soltanto. Poi riparte. Ed è l’ultima frustata.

Whiplash: frullano le bacchette e il tempo resta immobileultima modifica: 2015-02-24T18:39:04+01:00da capecchi
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