Quella in mezzo all’America

Ci sono certe volte in cui l’America si fa sentire forte e chiaro. Finisco all’improvviso per trovarmi lì, proprio lì, dentro allo scorrere delle cose; mi fermo e ogni pezzo di corpo aderisce perfettamente allo spazio intorno. Mi incastro con l’esterno in un modo che mi stupisce e mi fa respirare fiati lunghi. Il rumore delle sirene; o i fiori viola qua fuori, per esempio, hanno a che fare qualcosa con questa sensazione: sono alti un metro e mezzo, dondolano nel vento, tagliano l’aria con linee grosse, evidenti. Mi dicono che il panorama è reale: “Allunga una mano e strappaci da qui”, aggiungono.

Comunque stavolta ci ho messo un po’. Più o meno per due settimane ho vissuto come alla finestra: mi passavano davanti figurine irreali, ombre. Camminavo fra gli alberi ma non ero mica io: qualcuno manovrava dei fili attaccati tutti intorno a me. Scivolavo a lezione, salivo a mensa, tornavo nella casa in cima alla collina ma mi sembrava di stare sempre immobile. Congelata in una specie di fermo immagine dell’anno scorso.

Ma invece ultimamente succede sempre più spesso, e sempre all’improvviso, che mi fermo e mi vedo. Sono io quella. Mi tocco la braccia, la faccia che è molto cambiata, i capelli che scivolano di più e non so perché. Le solite collane lunghe fanno tic, toc, tic quando cammino veloce da qualche parte. Sono io quella là in mezzo all’America. Me ne accorgo. La prima volta è stata nel caffè d’angolo con la strada a precipizio sul parco: ci sono pareti viola e una poltrona sdrucita nel sottoscala. Ci portano bagel e cream cheese nel cestino di plastica, senza tanti complimenti: mi piace. E mi piace che questo posto sia in mezzo al nulla. Arrampicato in cima alla città, fra strade deserte e tutte spazzate da un’aria fredda e da un sole che non scalda. Siamo a San Francisco, qui, e il vento sulla baia non smette mai. Fuori dalla porta non c’è davvero niente. Ogni tanto passa qualcuno con il bavero in su e un cane al guinzaglio. Un negozio di liquori e una fermata dell’autobus di là dalla strada. Case colorate come disabitate e vento. Sempre vento. Che cielo meraviglioso, guarda là. Che belli gli alberi altissimi del parco, di quel verde-paura che però si perde lassù, lontano lontano, oltre il Golden gate che non si vede mai ma c’è, nascosto nella nebbia. Tu non lo vedi ma lo senti: sai che se hai fortuna ti apparirà dal nulla, lasciandoti senza fiato.

Poi a Lake Shore c’è un posto dove un barista burbero con le braccia tatuate e il viso tumefatto sotto gli occhiali ti serve cocktail ghiotti uno dietro l’altro. Non ti guarda mai in faccia, è grosso, essenziale ma gentile. C’è quando hai bisogno. Si cura di te con ruvida sollecitudine. Pensi a quel momento fuori dal locale in cui ha fatto a botte con qualcuno. Vedi il pugno che parte, le nocche bianchissime, lui a terra, lui che si rialza, lui che si sistema e arriva in tempo per essere lì a versarvi l’acqua nei bicchieri come fosse tequila. Chi è, come si chiama, come è finito in questo angolo di California non lo sai. Non sai nulla di lui. Ma gli sei grata perché il suo scorzoso modo di servirti ti ha sciolto quel grumo del giovedì sera che ti sentivi dentro.

Oggi poi io e una fanciulla con i riccioli spettinati, sempre più alta e sempre più bella, siamo sprofondate dentro le poltrone di Starbucks. Miles Davis, forse, risuonava in sottofondo. C’era fresco, rumori ovattati di caffè da fare, gente che lavorava al computer. Io bevevo un orribile delizioso Caffè Mocha e leggevo qualcosa su Elsa Schiaparelli. Mandavo messaggi e fotografie in Italia. Poco prima ci eravamo unte le dita con una pizza piena di nonsocosa, sedute ai tavolini in strada, mentre ci sfrecciavano davanti ragazzi in skateboard. Adesso eccoci qui in silenzio. Ci accoglie un guscio su misura, fatto apposta per noi. Il signore davanti a me con la pelle nera e i baffi bianchi guarda un po’ il cellulare un po’ nulla; pensa, credo. Ho provato una fitta intensa di appartenenza a tutto e mi sono scattata una foto dove i miei cento anni si vedono tutti.

Ma soprattutto c’è stato Louie coi suoi due denti d’oro e lo swing.  Lo swing e la mancanza dello swing e il vestito con le ciliegie rosse che ho comprato per lo swing e le scarpe coi fenicotteri rosa che non ho comprato e tutti i balli che ho fatto e che voglio fare e che ho pensato di fare ma invece no, su un barcone che scivolava lento lungo il Mississippi e contro il cielo color corallo. Ma siccome tutto questo è troppo, non lo scrivo. Un’altra volta. Forse stasera stessa. Ma ora no. Ché lo swing, il fiume che ci porta tutti alla deriva e la musica che va nonostante tutto sono roba per polsi forti.

L’America che mi manca sempre stavolta l’ho mancata io, per due settimane, attaccata a un’idea di lei che non esiste. Ma finalmente, spariti i fantasmi, adesso l’ho riacciuffata. Era rintanata in quel modo struggente che hanno i bambini, o i gatti, quando vogliono farsi scoprire.

Quella in mezzo all’Americaultima modifica: 2016-07-23T04:11:34+02:00da capecchi
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