Il giorno del Ringraziamento su questo divano

Ho sempre pensato che il giorno del Ringraziamento fosse qualcosa che succedeva nei telefilm: il tacchino con dentro la testa di Monica e quello/i da graziare di CJ, le quattro cene in una sera e le foglie gialloarancio di Stars Hollow, lo schiaffo di Marshall e poi tutti in piedi per mano a casa di Dawson a dirsi grazie per. Insomma, roba da piccole cittadine immaginarie perse nel Massachusetts o ultimi piani di grattacieli newyorchesi abitati da amici inseparabili.

Invece poi ho scoperto che il giorno del Ringraziamento esiste per davvero e che era proprio qui, dentro una camminata sotto i portici con sette chili e settecento di bestia portata a braccia mentre le prime luci dell’alberone di Natale in piazza Maggiore si stavano accendendo. Era qui mentre nel pomeriggio Bob Dylan cantava di ragazze del Nord coi capelli lunghi sotto fiocchi di neve e io lo sapevo, sapevo già in quel momento preciso, che l’immagine dei capelli e della neve e del tacchino massaggiato nel burro sarebbe tornata a lungo, a farmi visita, da allora in poi.

Sicché insomma il Ringraziamento non era solo un mucchio di persone che d’improvviso si mettevano a litigare per qualche imbarazzante storia familiare finendo poi ubriachi a dormire sul divano, ma era anche brindare alle cinque e mezzo con uno spritz perfetto e schiacciare patate come se ci aspettasse la fine del mondo. Fuori la luce passava dal chiarore trasparente di fine novembre all’ambra della sera sulla Montagnola, mentre noi eravamo stanchi ma sorridenti. Alcuni più emozionati degli altri, chi quasi muto, chi pieno di domande (non solo grammaticali), di certo tutti vagamente stupiti di trovarsi lì, in un luogo che esisteva sul serio da qualche parte nella realtà, seppure inaspettato. Poi qualcuno che non ero io – giuro – ha detto: “Mettiamo Tiziano”. E si sa che con Tiziano tutto piglia subito un certo verso. Che sta in un punto esatto fra lo stomaco, gli accendini sventolati al Palazzetto dello sport e poi case libri auto viaggi fogli di giornale, nanananananà. Auch. Fitta. Fai finta di, controlla la bestia, taglia un arancio, cambia le scarpe.

Comunque poi il tacchino è uscito dal forno. E la concitazione di qualche attimo prima, quando c’era da bagnarlo col brodo, infilzarlo col termometro da forno, annusarlo per bene, studiarne la doratura, è di colpo diventata l’incertezza goffa del taglio, il coltello incastrato per traverso, ridere riversi sul tavolo, con tutti quei lampioni a baluginare dalla finestra in fondo. Si sommano l’uno all’altro i piatti pieni, i mandarini sul tavolo, pezzi d’inglese, ritagli d’italiano, tutti stretti là intorno, poco spazio fra un bicchiere e l’altro: il che è un bene, perché diventa più difficile perdersi, così. Almeno per stasera. Almeno per il tempo dei nostri grazie: le famiglie, le mogli, le figlie, gli amici, questo tacchino, le case fuori di casa, l’Italia, le scelte, i Sopranos, la Chicca, l’America, gli studenti, noi. C’è qualcosa in questo dirsi grazie che dà senso alla stanchezza, al dolore della distanza, agli errori di tutti quanti, alle mancanze che ci saranno e a quelle che già ci sono. C’è qualcosa che fa male e bene, insieme, come tutte le cose che contano davvero.

Resta alla fine da mangiare tiramisù, brownies e pumpkin pie, prima di addormentarsi insieme e sentirsi grati per questa scoperta: il giorno del Ringraziamento esiste ed è qui, stasera, in questa casa e su questo divano. Un posto nel mondo per tutti quelli che cercano un rifugio; o forse un mandarino, un abbraccio, una buonanotte detta piano nel buio.

Il giorno del Ringraziamento su questo divanoultima modifica: 2017-11-27T18:56:41+01:00da capecchi
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