Wake from your sleep

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C’è un vento leggero, la luna pende a tre quarti sopra le nostre teste e un alieno è appena calato sulla polvere secca del Parco Nord. L’alieno si chiama Thom Yorke, indossa un gilet nero e porta una coda di cavallo. È bellissimo; ipnotico nel suo incedere dinoccolato da pazzo. La musica attacca martellante, i cerchi concentrici di Lotus flower si sistemano tutti per bene intorno agli ingranaggi dei nostri cervelli: siamo già in trappola. Del resto si sapeva che l’alieno era venuto per prenderci e parlarci di altri pianeti; no, per portarci lassù. Lo spazio siderale sopra di noi, guardalo come splende, che paura che fa. La tarantole che ci pigliano e ci fanno muovere a scatti – come lui. Oppure le onde che ti portano qua – e là. Poi qua – poi là. Poi là. Il palco in fondo brilla nel buio. Dodici schermi quadrati galleggiano nel nulla. Altri sei stanno fermi ancora più su. La voce dell’alieno s’infila nel mezzo, gira, sale, si tira, s’assottiglia, sembra spezzarsi ma poi no: diventa trasparente. Sgretola su nel cielo le litanie cherokee di 15 step. Le facce della gente intorno sono indecifrabili. Ma molti fanno movimenti strani, muovono le teste a tempo. Oppure stanno immobili, incatenati. Quando inizia Lucky uno si mette le mani nei capelli e dice: “Oddio, Lucky”. Succede spesso, durante la notte, che qualcuno si metta le mani sulla testa o che le alzi su, su, più in alto. Succede spesso, durante la notte, che la gente non creda a quello che sente. Mani sulla bocca, qualche no che l’incredulità schiaccia sotto i denti.  Come per quelle cinque note di perla con cui inizia Kid A. Come per le batterie corpose e potenti che spingono There there. Come le mani sul piano e la voce lunga, strapazzata di Pyramid song, quando avanzi fra la gente e t’avvicini al palco. Intorno è tutta luce blu, aria blu, suono blu. Aria, aria, aria. L’alieno canta e porta aria – o la fa mancare, che in definitiva è un po’ la stessa cosa. Sempre d’aria si tratta: ma è lui che l’amministra, che decide, che toglie e poi dà. Non è che si possa fare nulla se non aspettare e vedere cosa vuol fare di te: salvarti o soffocarti. Lui se ne sta lì sopra il piano e sotto gli schermi che ondeggiano. Lui sa anche per te quello che tu non sai di volere. E mentre torni indietro verso la collina, la luna, il vuoto, ti si struggono addosso tutti quei come on come on e tutti quegli occhi moltiplicati. Gli occhi di Thom che si sdoppiano si centuplicano s’immillano. Gli occhi di Thom che ti seguono mentre gli giri le spalle. Non puoi scappare: You and whose army segna il momento in cui lo sai: quell’uomo lì non ha solo la voce le movenze la magrezza, dell’alieno, ma dell’alieno ha soprattutto gli occhi, sgranati puntati addosso a te, in milioni di posti diversi; posti che di te non sai. Così la musica va avanti. E The king of limbs non ti è sembrato mai così bello. E In rainbows pure. Com’è che invece ti pareva di no, che insomma, che però, che boh? Macché, idiozie. Sono una meraviglia. Ogni pezzo che scorre seppellisce infatti il precedente per bellezza. Non c’è limite, non c’è limite. Il vecchio Planet telex t’avvolge e ti lascia pronta per le frammentate spezzature di Feral e soprattutto per una canzone che viene evidentemente dal futuro e si chiama Idioteque: musiche, tempi, respiri che non possono essere stati scritti dodici anni fa, non c’è verso, impossibile. Ma poi succede una cosa. Succede che lui si mette ritto e fermo in mezzo al palco, una sola luce addosso, il suo respiro che si ferma, il tuo respiro che si ferma perché ti disturba, tu che aspetti – aspetti. Aspetti. Hai aspettato tanto. Ed ecco la chitarra, il primo accordo. Precipizio. Wake from your sleeps. The drying of your tears. Today we escape, we escape. Il mondo implode, il cielo precipita, tutto è risucchiato giù. Stai per cascare, non ti riesce nemmeno di cantare, forse sei già morta e non lo sai. È proprio allora la musica d’improvviso si sospende, la canzone resta sollevata per aria e l’uomo dentro l’alieno dice:“Jonny, turn the fucking microphone”. Tutti spalancano le bocche, qualcuno ride, altri applaudono. Niente musica. Squarcio, taglio. È lo strappo nel cielo di carta del teatrino. È la voce di un uomo alto, allampanato e dai capelli sottili che parla e si arrabbia ed esiste e ha braccia lunghe da toccare, occhi spaventosi da fuggire, fauci spalancate da tuffartici dentro. È un uomo di ossa e poca carne laggiù troppo lontano da dove lo vorresti. È un uomo. Poi la musica riparte esattamente nel punto in cui si era fermata. Arriva quel passaggio di batteria che ti fa tremare le ginocchia, arriva il resto, arriva tutto il resto. Lui ti riacchiappa, viene a riacciuffarti mentre sei ancora lì che dici “ma?”. Non ti lascia in pace, è gentile, morbido. La gente si dondola su The daily mail. La luna dell’inizio sembra la luna qua dietro. Tutto si sfalda. Tutto si scioglie. Tutti poi urlano What’s thaaaaat, tutti sono oranghi che ciondolano le teste su quel dun du du du du dun dun du dun dun. Gli schermi volteggiano colorati, si scheggiano in azzurri gialli rossi verdi blu. Le corde di chitarra, le bacchette delle batterie, i triangoli degli occhi, le unghie delle mani, i ciuffi dei capelli vengono tutti fatti a pezzi sopra il palco, s’incrociano e si confondono: sotto la musica va e sopra le immagini amplificano quei tonfi del cuore che ti pare di sentire dappertutto. C’è tempo ancora per la strappata dolcezza di House of cards, che hai scoperto di amare ora. C’è tempo per ballare e per piangere. Sentirsi urlare Don’t leave dal palco, gridarlo a lui. Don’t leave don’t leave don’t leave. La preghiera dell’addio, la disperata canzone della fine. L’amore vero ha aspettato, aspetterà, ma tu non te ne andare – uomo secco che balli dentro l’alieno. Cantami ancora Everything in its right place. Cantami ancora un verso una parola una nota ma non andare via, non andartene più, adesso che tutto – tutto – è lì dove deve stare. Tu non andare via proprio ora.

 

 

Wake from your sleepultima modifica: 2012-09-26T18:19:00+02:00da capecchi
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Un pensiero su “Wake from your sleep

  1. Gli altri che dicevano “Okay, ci avviamo”, “Forza, da quella parte”, “Cominciamo a uscire?” e io, come te: “Cantami ancora un verso una parola una nota ma non andare via, non andartene più, adesso che tutto – tutto – è lì dove deve stare. Tu non andare via proprio ora.”

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