Le stanze di Gaia

In bilico sopra a un muro di mattoni rossi

C’è un alunno, in prima, che ho scoperto oggi di amare molto. Ha undici anni, è magretto ma non basso, castano e spettinato, con occhialetti tondi. Lui fa sempre altro da quello che stiamo facendo noi. Non sa mai esattamente dove siamo e cosa sta succedendo. Il suo sguardo chissà dov’è, che fa, che pensa – me ne accorgo che non è mai lì; ma non sempre glielo dico. Anzi spesso lo lascio fare. Ha un modo di leggere che fa ridere gli altri, cantilenante sul finale, come una specie di domanda in musica conclusiva – quasi a non essere mai sicuro di niente. La leggerezza sfuggente è il suo mondo, direi. Sta seduto ma ci guarda dall’alto di un qualche albero; da sopra un tetto; in bilico sopra a un muro di mattoni rossi – ci guarda quando si ricorda che ci siamo. Si scorda libri e quaderni, svolge metà compiti perché sbaglia, lascia a casa il tema assegnato e si dimentica di dirmelo. Disegna. Ieri mi ha consegnato un diagramma di flusso (certo da me non richiesto) che illustra le sue attività pomeridiane. Il suo migliore amico è un bambino bielorusso alto come un fungo, biondo biondo, vispo, intelligente e linguisticamente superiore a tutti gli altri compagni. Ho dovuto separarli perché insieme erano un cantiere in eterna lavorazione: fogli, forbici, colla, parole, risatelle, distrazioni piccole o grosse ma onnipresenti e egualmente spalmate durante tutte le ore. Quel mio alunno spettinato con gli occhialetti sembra sempre come sorpreso, se lo chiami. Come se si trovasse lì per caso; come uno fermato per strada da uno sconosciuto che gli chiedesse in mezzo al traffico: “portami il quaderno”. Se la fa davvero grossa o se io lo strattono un po’ con le parole, lui prende la maglia e se la tira su, a coprire la faccia. Gli spuntano solo ciuffi di capelli, dall’orlo del colletto. E tutti ridono e lui chissà, là sotto con le mani e la felpa sulla testa. Oggi, a fine ricreazione, ha spostato per distrazione una sedia mentre un compagno si sedeva. Il compagno è caduto, ha picchiato la testa, s’è fatto un po’ male ma nulla di che. Allora tutti accorsi sul luogo del sinistro: i compagni, la bidella, io, la professoressa di matematica e quella di inglese. Al povero spettinato è stato fatto un processo sommario, lì in piedi con gli altri seduti, incalzato da tre mostruose professoresse che insomma qui insomma là ma ti rendi conto poteva anche morire. Quello che più bruciava era però l’accusa che lo avesse fatto apposta e non per sbaglio. Ma io, che lo vedo coi pensieri partire e tornare a intervalli irregolari fra noi, sapevo invece che era proprio così: una distrazione delle sue. Quando la bufera di rimproveri è finita, le altre due professoresse se ne sono andate e la classe s’è calmata, lui si è seduto e si è coperto la faccia con le mani, ma stringendosi forte, stretto stretto stretto, per non farsi vedere; con le spalle abbassate e le dita rapprese sugli occhi senza occhiali, piangeva. Allora sono andata lì, ho visto che tremava e singhiozzava; gli ho scoperto il viso, gli ho preso le mani, l’ho guardato da vicino vicino, ho sillabato parole che sapevano di burro – penso. L’ho guardato e mi sono accorta solo in quel momento dei suoi occhi, che sono così celesti e tersi – perché non li avevo ancora visti quegli occhi liquidi e perduti proprio non lo so. Gli vedevo rotolare goccioloni che gli allungavano le ciglia e lui fra le lacrime m’ha guardata fissamente in un modo, sì in un modo che m’ha sminuzzato il ridicolo cuore di pastafrolla che mi ritrovo. Solo adesso mi viene in mente che avrei potuto tirargli su il maglioncino e nasconderlo. Solo adesso. Non capisco perché stamani no.

In bilico sopra a un muro di mattoni rossiultima modifica: 2003-10-20T16:55:00+02:00da
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