Scoiattoli, mucche e prati: una delle mie americhe

58a5375036a20c5e296cd39487c2e2b3.jpgA tratti mi manca molto l’America. Cioè quell’America che ho conosciuto io, quando insegnavo al Middlebury College – Vermont. Era un’America sempre un po’ a metà. In mezzo a professori che parlavano solo italiano e studenti con l’obbligo assoluto di non pensare neppure le virgole, in inglese. Uno stretto ritaglio d’Italia appiccicato in quei verdi prati che non finivano mai, fra gli scoiattoli, le mucche, le fattorie e l’aria spesso pesante che ti spezzava le gambe dalla fatica. Ed era anche un’America fatta di contatti con l’Italia; densi, serrati, importanti. L’America associata a chi in Italia viveva; e non l’America associata agli americani. Che strano.
Lì mi piaceva, stavo bene. Quasi sempre. Perché ero lontana dalla mia vita di figlia – e nelle due estati in cui mi trovavo là ero ancora parecchio figlia. Ma al college invece no. Ed era una cosa bella. Avevo la mia camera al terzo piano del dormitorio comune, una camera fatta di due piccole stanzette, con alle finestre le zanzariere; con fuori dalle finestre pezzi di edera e cielo con nuvole che non ho rivisto mai più e alberi e prati e il campanile della Mead Chapel, in alto; con fuori dalle finestre i rumori continui della fabbrica di riciclaggio del college, rumori a cui mi ero abituata, come quelli dei tagliaerba che un giorno sì e uno no mi svegliavano, prima delle otto. L’America era essere liberi e soli – eppure prigionieri e mai soli. Era una specie di carcere a cielo aperto, lì: le lezioni alle dieci e all’una, la mensa a mezzogiorno e alle cinque, i film alle otto, le feste e i concerti alle nove, la partita di calcio il sabato, il picnic la domenica e ancora ancora ancora. Una prigione di sguardi e occhi sempre fissi su di te, pronti a notare se ti eri adombrata. Eri libera, sì, perché in fondo a nessuno importava davvero nulla di te – importare davvero, intendo. Ma anche eri in trappola. Ci trovavi, là dentro in quel calderone, anche persone detestabili e disgustose, a cui dovevi mostrare una specie di ghigno intirizzito, per poter almeno convivere traballante per tutte le sette settimane. Poi c’erano gli studenti che comunque non dovevano mai vederti turbata. Anche perché ci volevi uscire la sera e andare da Mister Up’s a bere il tuo Long Island Ice Tea e buonanotte. O magari unirti ai gruppuscoli che si tuffavano scriteriati nella One dollar beer night; insomma le ombre dolorose sul viso, se ce l’avevi, non servivano davvero a nessuno.
L’America era il piccolo paese di Middlebury, a dieci minuti a piedi dal college. Mi piaceva andarci da sola (e mi piaceva molto quella solitudine, a ripensarci). Girare senza fretta per i negozi che da fuori sembravano piccoli e dentro si slargavano in spazi impensati. E dentro c’era sempre musica. Ce n’era uno, che si chiamava Sweet Cecily, che vendeva cose fatte a mano, tazze, tappeti, quadretti, candele, cuscini e cianfrusaglie varie, in perfetto stile New England; entravi e sentivi della musica jazz in sottofondo. Spesso big band classicone che swingavano agili. Amavo quel negozio. Mi sarei seppellita là dentro per delle ore. C’era un odore, ma un odore. Infatti era anche pieno di candele. In genere non uscivo mai senza almeno una candela. Che poi, regolarmente, non mi serviva a un diavolo di niente, ma in camera mi portava l’odore che c’era in quel negozio, che poi diventava l’odore della mia camera, che poi diventava l’odore della mia America al ritorno in Italia.
La mia America era cose stupide: il sabato a fare acquisti a Burlington; gli asciugamani bianchi e un po’ ruvidi che cambiavano ogni settimana; i messaggi sulla lavagnetta fuori dalla mia porta; i chili che prendevo perchè il muffin al cioccolato la mattina, eh, per non dire della Philly cheese steak di Baba’s, con gli studenti che ridevano sgangherati coi pensieri mezzi in italiano mezzi in chissà che. Il primo anno, prima di arrivare lì, pensavo che la mia America sarebbe stata qualche specie di avventura sensazionale e spettacolosa. Ma invece mi trovavo in un college dove tutto era previsto e inscatolato. Dunque, era ben strana, quella mia America. Era quando la mattina alle dieci camminavo fuori da Starr e andavo verso l’aula, e magari c’era il sole e faceva già caldo e io incontravo tutti gli studenti che uscivano dalle lezioni precedenti ed era tutto un “Ciao Gaia, buongiorno Gaia, come stai Gaia”. E poi incrociavo gli studenti delle altre scuole e allora ci scappava qualche bonjour o qualche altra parola in lingue che ignoravo. Era bello. E’ l’immagine che mi è ritornata più in mente, negli inverni successivi: io che esco da Starr e cammino sotto il sole verso l’aula, salutando, affrettandomi perché sempre in ritardo – pensando alle parole scritte, coi fogli e i libri che mi scappano dalle mani. Pensando a tutto tranne all’America.
Quella mia America lì era qualcosa che mi sembrava poco America. E adesso mi manca molto spesso.
Ma a giugno, e per sette lunghe settimane, la rivedrò; anche se ora è cambiato tutto.

Scoiattoli, mucche e prati: una delle mie americheultima modifica: 2003-11-12T08:25:00+01:00da capecchi
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7 pensieri su “Scoiattoli, mucche e prati: una delle mie americhe

  1. ecco, vedo “A tratti mi manca molto l’America” e non ho tempo di leggerti. questa sera con calma, davanti a un tazzone di orzo nocciolato! *SB*

  2. bellissimo… mi ha fatto venire in mente tutto il repertorio cinematografico dell’America più rassicurante (tipo In&Out), tutta torte e ricami. Val

  3. vedo che siamo entrambe stese sotto la botta della rimembranza. da quando ho visto dogville, un’idea appuntita ha cominciato a penetrarmi il cervello. vorrei quasi andarmene da qui. (robba)

  4. e da quando ho letto entrambe ho voglia di ricordare la peggiore esperienza più divertente della mia vita, tra nebbie, brasiliani e prosciutti di carpegna. intanto attacco un post-it qui, così magari mi ricordo. [sere]

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