Le stanze di Gaia

Fra gli aghi un breve grè grè

Non so che m’è preso, ma oggi ho deciso che avrei disfatto l’albero di Natale. Sfilavano via, precipitando fra gli aghi dolenti, stelle e sfere e argenti e rossi e luci. Ho capito che avrei dovuto ascoltare Amalia Grè, perché il disco era acquisto di un dicembre precoce e avrebbe contribuito a riportarmi un po’ indietro – quantomeno nell’orribile sottopassaggio della stazione di Firenze una manciata di giorni prima delle vacanze.
Mi ero già espressa su di lei nei commenti a un pezzo di Tom; ma siccome, vedo, questo gennaio la si ascolta parecchio in giro, tipo in casa Mappamondo o Emmebi, bisognerà che ribadisca quanto avevo allora scritto: la signora è brava e ha una bella voce; ma non fatele scrivere i testi, per carità. Il problema è che, in un disco che vuole essere – ed è – jazz e in cui si presume che non ci sia nulla da ridere, io ho riso. Ma riso davvero, forte e chiaro, di fronte a frasi come: “Io vivo a volte infelice a volte gaudente” oppure “E mi accorgo che la vita mi ha lodata quasi osannata”. I suoi testi imbarazzano, l’avevo già detto. Sono oggettivamente inutili, mediocri, brutti, non c’è niente da fare; e dispiace, perché quando una giovane cantante jazz si mette a comporre e scrivere cose sue, vorresti dirne un gran bene. Invece puoi solo dire che l’ascolti il meno possibile, perché ogni volta che senti quei testi, t’aggredisce il fastidio: eh, no, non si fa un disco jazz a metà. Ci si concede magari più tempo: per riconoscere la bruttezza, strappare i propri fogli e scrivere parole che fulmino chi ascolti. Non che lo facciano ridere. Si attendono altre prove della brava Amalia: ma che getti la penna o, almeno, l’affili meglio.

Fra gli aghi un breve grè grèultima modifica: 2004-01-14T17:50:00+01:00da
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