Le stanze di Gaia

I miei occhi quassù


Affacciarsi al terrazzino di cucina è vivere miliardi di vite. Siccome dà sul retro di casa mia, ossia su una delle entrate secondarie della stazione, può capitare d’osservare di tutto.
Stamani grida spezzate di donna mi hanno fatto aprire le finestre e poi correre fuori. C’era questa figurina smilza, bionda e riccia, con infradito bianche ai piedi, che litigava con un uomo alto e scuro, brutta maglietta, brutti jeans, brutti movimenti. La voce di lei arrivava fin quassù a folate. “Mi hai detto che non volevi parlare. Ora invece parliamo”. Si teneva stretta alla borsa rosa. La voce di lui non arrivava; anche se cercava di rispondere a lei. E mentre litigavano facevano alcuni passi, cambiavano angolatura di braccia e gambe, prendevano fiato. D’un tratto, così com’erano arrivate le urla, i due si sono dati le spalle e hanno preso direzioni opposte, puf, così, senza un contatto, una parola, un gesto qualunque. Lui giù per le scale della stazione, lei verso il viale. Spariti.
Ad ogni ora del giorno arrivano macchine da cui scendono persone che scaricano valigie. Molti attendono sul gradino davanti alla porta. Quando chi aspettavano sbuca dalle scale lo abbracciano; oppure no. Ma sempre gli tolgono di mano una borsa che lo appesantiva. Poi si buttano veloci in macchine parcheggiate male e spariscono. Non sospettano che per qualcuno quello sia un posto definitivo, di vita.  In genere le cose più interessanti succedono di sera; o di notte. Ci sono sempre quei tre o quattro stranieri scuri in volto che si appostano dietro le siepi, accampati con i loro zaini sudici. Nel buio brillano le fiammelle degli accendini e loro rollano senza sosta, voraci di fumo. Qualche voce s’attorciglia su, talvolta. Come quella notte che il marocchino spaventato correva privo di direzione, gridando “Polizia, polizia, polizia! Chiamate la polizia!”. Spesso strani individui fiancheggiano le automobili in sosta, guardando dentro gli abitacoli. Le rasentano come i cani randagi i muri scrostati e danno lo stesso senso di provvisorietà disperata. E paura.
Però una volta mi sono affacciata e c’erano due. Un uomo e una donna. Che ballavano. La musica non c’era, la luce era quella della sera appena iniziata e loro si tenevano e ballavano, nella quiete del dopocena, in una stagione di mezzo che poteva essere una primavera odorosa o un autunno clemente. Più che ballare però provavano. Accennavano dei passi di danza, si sbagliavano, li ripetevano, l’uno guidava l’altro e si capiva che ridevano. Volteggiavano così, incerti sull’asfalto e inghiottiti dal grigio della città, i binari dietro, i miei occhi quassù, incantati.

I miei occhi quassùultima modifica: 2007-08-29T14:05:00+02:00da
Reposta per primo quest’articolo