Le stanze di Gaia

Luca. Flores.


Luca. Flores. Strisce di blu, di secco, di giallo, di verde. L’Africa e Firenze. La barba su Kim Rossi Stuart e gli occhi spalancati che ha, le guance scavate che pulsano e gesti andature storte contratte che poi, però, si sciolgono in una carezza un abbraccio, un altro, un altro. La mano come poggia sul piano. No, Luca, no, non è la scala la maledetta scala di mi minore ad aver ucciso Chet né tua madre né te. Solo buio, dolore e paura. Distanza. Luca. Flores. Si taglia la mano sul piano poi dice “Non mi vuoi abbracciare?”. Dirupi, scoscesi, spavento del suono, dell’occhio, del volo. Piano, solo. Chissà se poi è un bene, no, essere dei solisti. No, credo di no, certo che no. L’Arno non l’ho nemmeno riconosciuto era come troppo schiacciato sotto note e dolore e attese e corse in moto con dietro tramonti sorrisi il momento. In cui. Sembrava. Ancora. Che ci fosse. La felicità. Piangere tutta la notte, rimettere questo pezzo daccapo tutta la notte, affondare nel buio nel nulla nell’assenza di perché, di motivo. Non addormentarmi restare qui sveglia tutta la notte e non smetter d’ascoltarlo mai più, mai più, mai più, mai più. Però i filmini alla fine no, per la miseria, no, la realtà no, le loro facce no, la luce davvero che c’era davvero no, per favore, no.

 

 

(Luca Flores, How far can you fly? (ladder), in For those I never knew, registrato il 19 marzo 1995. Dieci giorni prima del 29 marzo 1995. Che poi sarebbe la data in cui si è ucciso. Luca. Flores. Pianista. A Montevarchi, attaccato a una trave del soffitto, solo)

 

 

Luca. Flores.ultima modifica: 2007-09-28T01:15:00+02:00da
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