A Londra

 

A Londra tutto è lucido. Non c’entra che il cielo sia spesso grigio. DSC00217.JPG

I confini sono netti; e anche il grigio ha una forma, lassù. Non c’è indistinzione di profili, spazi, colori. I rossi sono rossi e i blu sono blu. Tutto va a colpire là dove deve, per lo più in maniera imprevista.

Ci sono strade la mattina presto che sono zitte e tagliate dal sole a strisce. I camion scaricano qualcosa, poche persone sui marciapiedi, i negozi ancora chiusi, il freddo buono di prima delle dieci. Trovi allora piccoli posti dove mangiare croissant francesi mentre leggi oppure altri dove il vetro è appannato, gli uomini escono con sacchetti pieni di pane e l’unica cosa da fare è addentare bagel al formaggio guardandosi nello specchio annerito; ma soprattutto sperare che quei cucchiaini immersi tutti nella stessa acqua sporca vadano bene per mescolare il caffè nel bicchiere di polistirolo.

Il cielo stupisce. Azzurri intensi, bianchi gonfi, rosa striati. E infatti sono i posti da cui il cielo si vede bene, quelli che ami di più. Le bolle sospese sul Tamigi e le finestre che affacciano giù, i tavolini accanto al vetro, i tetti e le piazze ordinate sotto. Specchi, vetri, brillii, acqua, il fiume che passa là in mezzo, scie di barche, fumo. Sopra la National Portrait Gallery bevi vino e mangi pane caldo all’uvetta con burro morbido; in cima a Fortnum and Mason lasci freddare un doppio macchiato; al settimo della Tate intingi pane nell’olio e ti scatti una foto con dietro il Millennium, St Paul e la gente portata via dentro i cappotti, giù in basso.

 

 

DSC00543.JPGC’è spesso molto vento. E molto freddo. Camminare lungo il fiume, lucidarsi gli occhi di ponti altezze prue lontananze pensieri chiede il suo prezzo: sono lame sulla faccia. Ma poi una stradina nascosta e un’altra e quel piccolo pub buio e i tavoli in legno con la candela sopra e il double chocolate brownie la poltrona in velluto verde la sciarpa appoggiata sulla sedia. Tutto ha un motivo, figuriamoci il freddo.

Londra è la città degli incontri anomali. Magari riconosci qualcuno che hai visto solo in foto, per caso fermo in piedi davanti a un museo, e lo saluti come uno di famiglia, ti fai trascinare da lui su scarpe di gomma e in locali bianchi, ridi e scuoti la testa. Ma anche scendi da un taxi e la prima faccia che t’appare è un amico di quell’estate lontana che ti è sempre rimasta appiccicata addosso. E infatti ti lasci abbracciare e lo abbracci forte, a lungo, non ti passa il sorriso, gli parli come se fossero cinque giorni che non lo vedi, e non cinque anni. Vi muovete per una Londra gelata, in cui non riconosci nulla se non qualche piazza, qualche cappello, e per tutto il tempo senti una specie di groppo, di malinconia ruggente e grossa, che ti cammina addosso, ti calpesta, ti lascia strapazzata, esausta, piena. Sei a casa. Però soprattutto è la città degli incontri che già sapevi, i polsi che conosci, quei momenti in cui resti ferma, immobile, ascolti se ti sta esplodendo qualche organo, dentro, o se tutto è ancora in ordine e puoi riprendere a respirare. Lo fai, riprendi. 

  

Nessuna musica ti porti dietro. Vuoi quella che ti si pianta negli orecchi. la fromagerie.JPG

Vuoi il mind the gap, le canzoni idiote da grande magazzino, le sirene e lo sferragliare. Il silenzio irreale dietro la prima svolta. Vuoi la ragazza che canta in francese mentre ti dà il pain au chocolate. Vuoi i dialoghi rubati sulla metro. Vuoi la batteria e il rumore di bicchieri misto alle lucine rosse dentro al Ronnie Scott’s. Vuoi tutto. Lo pigli. Te lo bevi.

In quell’aria lucida di Londra ti restano impigliati nei capelli gli odori della cucina cinese e le scie di caffè; quel profumo di lavanda e di cotone di certi negozi. Cammini da sola per ore, compri tazze, borse d’argento usate a Shoreditch, dischi, libri e due vestiti, uno rosso e uno viola. Stai bene. Sei tu. Ti perdi dietro un muro a colori o invece piuttosto agguanti la città per la coda e ne fai quello che vuoi. Nell’albergo quando vieni via lasci in omaggio i tuoi stivali vecchi e consumati. Che poi sarebbe come dire che lasci lì un pezzo di te.

A Londraultima modifica: 2010-03-17T17:03:00+01:00da capecchi
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8 pensieri su “A Londra

  1. A Londra sei casa. Londra è casa. Qui tutto di lei mi manca, i rumori della metro in particolare, qualcosa che apprezzano in pochi e che qui, da te, ho ritrovato. Prima o poi, meglio prima che poi, dobbiamo tornarci insieme.

  2. Eh sì, eh sì. Magari ti porto anche a mangiare in qualche posto di quelli che te non frequenti.

  3. “Londra è la città degli incontri anomali. Magari riconosci qualcuno che hai visto solo in foto, per caso fermo in piedi davanti a un museo, e lo saluti come uno di famiglia…” Sì, stai andando al lavoro e incontri Briatore col cagnolino al laccio. Ti fermi e allacci un ‘talking’ (più ‘body’ che ‘mind-spirit’: oppure il contrario – sai, le sorprese della vita… nulla è scontato – semmai “sold out”). Non è capitato a me, ma al mio ‘son’ (ormai ‘cockney’ da un paio d’anni, più up che down). Io Londra l’ho guardata, ma non l’ho ‘vista’ (ma è stata solo una “toccata e fuga”). Looking at “Orgoglio e pregiudizio” (ieri in tivvù), mi pare di aver ‘visto’ qualcosa… (ma forse ora della swinging Londra è rimasto solo lo ‘spleen’ – alla francese, ma anche all’inglese…). Spero di sbagliarmi: sono un inguaribile ottimista. Tra qualche mese andrò a dare una controllatina.
    Nike

  4. Eeeeeeeeeh, che dire? Quella città è il mio sogno, ma tu lo sai. Per ora la vivo attraverso le tue parole, che ne fanno un ritratto assai affascinante. Un abbraccio grande.

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