Mississippi, canzonette e il blues robusto del sud

Indossa una giacca di velluto verde sottobosco con disegni fantasia, incede piano sul palco e ha i capelli tipo bruma autunnale. Poi suona ed è tutto un Mississippi. Quando Allen Toussaint canta ha una voce calda e piena, senza arrochiture cattive o graffi da bestia in gabbia. Ha una voce come la sua giacca: fuori dal tempo, portata alla tranquillità. Il gruppo lo asseconda con guizzi di robusto blues e motivi facili da orchestrina che suona sui barconi lungo il fiume. Ci sono un batterista e un percussionista piuttosto potenti, un notevole sassofonista, un bassista che ama lo slap e un chitarrista che all’occorrenza acchiappa il trombone. Le canzonette son facili e scivolano via così, lasciando poco in testa e poco nel cuore, anche se la testa l’hai mossa su e giù per andare a tempo. Dal pubblico partono molti uuuh e yeah. La gente si diverte, t’accorgi che sorride. Purtroppo tu hai una mal di schiena furioso che ti fa stare sulla seggiola come sui tizzoni ardenti e soprattutto accanto a te si sono seduti un vecchio barbuto con la fidanzata giovane e scialba, segaligna; e i due hanno deciso di litigare stasera, lì, durante il concerto. Lui alza la voce, lei fa le facce dell’arrabbiata, lui fa il professore che sentenzia e spiega – forse il concerto, forse chi è che suona stasera, boh -, poi i toni s’abbassano di colpo e poi di nuovo su: “proprio non sopporto quando fai così” e via per tutto il tempo. Infine lui s’accuccia sul petto di lei, cane mansueto in cerca di carezze; e a me fa schifo. Con la barba e l’occhio lussurioso e la mano prensile e tutto. Fortuna che sul palco entra Don Byron: un completo giacca gilet pantaloni tutto bianco, e naturalmente il cappello calato sulla faccia: potrebbe avere uno sterminato campo di cotone da qualche parte nel sud, pieno di negri che lavorano per lui, sudati sotto il sole; questo se il negro non fosse lui e non stringesse fra le mani un clarinetto. I pezzi più belli son quelli quando c’è lui, non tanto per lui – che certo è molto bravo ma un nostro Gabriele Mirabassi gli sta davvero parecchie spanne sopra – ma più che altro perché suonano i pezzi dell’ultimo album, tutto profondità della Louisiana e lentezze da funeral band. I fiati s’intrecciano, nessuno canta, le melodie si fanno woodoo e l’aria del Mississippi la senti addosso, densa, umida, dolciastra di bignet e jambalaya. Vorresti che suonassero sempre così. Un po’ per attutire il nervo e il disgusto per il vecchio accanto, un po’ perché le canzonette facili che fanno ti stanno stufacchiando. Alla fine suonano un paio di bis. Don Byron non è il più applaudito: vince il sassofonista, che nell’ultimo pezzo si gioca tutto il repertorio del sassofonista piacione padrone dello strumento: lo abbranca, lo strazia, gratta la gola, emette suoni gutturali, arriva su su su ad altissimi sovracuti, tiene una nota per un tempo infinito facendo impazzire il pubblico, e scuote, rotondeggia, fa vibrare, rolla, graffia come solo un vecchio scaltro leone del sud può fare: è il blues che si suona quaggiù da me, amico, ascolta bene e godi. Infatti il pubblico gode e applaude. Infine il concerto finisce, tutti sciamano via e le note pure, piacevoli ma liquide, evanescenti. Resta solo da mettere le cose in chiaro con il vecchio laido e la fidanzata segaligna: lo fai. Poi vai a casa e fuori non c’è la notte gialla di New Orleans ma l’odore della pizza del Golosone – Bologna, via Indipendenza 65/a.  

Mississippi, canzonette e il blues robusto del sudultima modifica: 2010-03-24T11:08:00+01:00da capecchi
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