Una specie di pulviscolo argenteo

Alle tre scendeva una pioggia fine e quasi invisibile, che lasciava piccoli punti rotondi sulle mattonelle vecchie del terrazzo. Alle sei il cielo era grigio e minaccioso come un pugno chiuso. Alle nove la luce era perfetta: strisce di chiaro e di temporale lontano si stendevano sopra la casa, immergendola in una specie di pulviscolo argenteo, che rendeva più lucide le foglie e i capelli delle fanciulle. Tutti c’infilavamo nel corridoio caldo trovando conforto al fresco della sera; tutti ci buttavamo smaniosi nel fresco della sera, cercando rifugio dal caldo gonfio della cucina. Era tutto uno scambiarsi di temperature differenti e parole lievi, calici di prosecco e fruscii di gonne. Eravamo di certo a West Egg, in un’estate del 1922: lo dicevano le luci accese nella notte, in mezzo ai gelsomini e agli oleandri; lo diceva quella musica distorta delle orchestre da ballo e il tintinnìo continuo dei bicchieri, insieme alle svolazzanti balze nere di raso e ai tacchi rossi che sbattevano per terra. Di là dalla scalinata s’accendeva infatti la luce verde intermittente della casa di Daisy e in mezzo tremolavano scaglie di mare: un Jay Gatsby vestito di bianco sarebbe di sicuro sbucato fuori a un certo punto da dietro una porta che per qualche strana ragione nessuno aveva visto prima. Sarebbe entrato lasciandoci senza fiato, perduti dentro al suo mistero e alle sue camicie bellissime.

La festa fluiva a ondate ritmiche di risate e pensosi silenzi di tutti quelli che si avvicinavano alla ringhiera e lanciavano lo sguardo oltre la città: chissà quali ombre vedevano laggiù in fondo. Erano passati anche per noi cinque anni dall’ultima volta che ci trovavamo lì? Anche noi come il giovane soldato e la ragazza dalla lunga collana di perle avevamo avuto una vita intera in mezzo a quei due attimi? C’erano le stesse piante e la stessa pergola da cui dondolavano le lampadine, le stesse bottiglie di vino e le stesse sedie di legno. Ma ognuno ballava stringendo fra le braccia rivoluzioni private, amori perduti e inizi ammezzati di storie. Non erano solo il colore dei capelli o i chili persi ad averci cambiato. C’era un qualcosa in quell’essere ancora lì, ed esserci in quel momento e in quell’occasione e in quella specifica notte, che ci faceva dire: brindiamo ancora, balliamo più forte e abbracciamoci stretti. Respiriamolo fino a tossire, questo bene che c’è. Abbiamo attraversato sentieri diversi, guidato anche noi troppo veloce in giornate afose, verso un Plaza che c’illudevamo di trovare fresco, abbiamo visto sui cartelloni stradali uomini con gli occhiali che ci giudicavano e ci spaventavano. Ma alla fine siamo tutti qui, scartiamo regali che indosseremo subito e mangiamo sporcandoci le mani perché è l’unico modo che conosciamo per farlo. E questi tentativi di familiarità in cui ci sciogliamo strapazzano un po’ il cuore, fanno sentire che fin qui tutto bene, hai fatto quello che dovevi fare, detto quello che volevi dire e dato quello che potevi. La musica continua, ha un volume vario e discontinuo. Balliamo? Ma certo, vieni. Però tu non lasciarmi la mano, che ho paura di cadere e mi serve qualcuno che mi guidi nel buio. La notte ci nasconde dentro un altro sugar-push, la bambina con la gonna a pois bianchi ha un sorriso che non si può descrivere e la collana dentro il pacchetto ha delle piccole pietre blu, perfette, antiche, mie. È un amuleto; e io lo so. L’ho capito subito quando l’ho vista, per quello ho sorriso tanto: sta bene sotto i miei capelli e sopra la mia pelle. Mi farà brillare. Mi accarezzerò il collo e mi sentirò la Ballerina Con La Collana Dalle Pietre Blu.  E allora la indosserò come si indossano le certezze, essendo convinta di non averle.

Una specie di pulviscolo argenteoultima modifica: 2016-06-04T16:40:20+02:00da capecchi
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