Senza averne l’aria

Un colibrì l’altro giorno mi ha tagliato la strada. Trasvolava frullando a mezz’aria, facendo quel rumore che fanno appunto i colibrì: frrrrrrrrrrrr, ma inudibile. Era una mattina prima delle otto, quando scendo giù lungo la collina e oltre gli alberi intravedo pezzi di città bianca, luminescente. Oppure del tutto immersa nella nebbia. Era il momento quando suona il campanile di Julia Morgan e io apro la porta dell’aula. Faccio sempre – sempre – la stessa cosa: guardo attraverso il vetro le facce degli studenti, poi entro e dico buongiorno, aspetto i sorrisi, appoggio le borse e il caffettone sul tavolo a destra, mi tolgo il giacchetto di pelle, metto astuccio libri fogli e soprattutto pennarelli sulla cattedra; comincio. Una ripetizione di gesti e sguardi che ogni mattina mi è necessaria. Qui si vive di queste minuscole certezze, come il tavolo d’angolo in mensa. O la stanzetta dopo pranzo piena di silenzio e scaffali vuoti, diventata così mia che ricevo là dentro allievi e amici con storie da raccontare.

Non c’è nulla qua che non faccia parte della mia vita. Ma mancano molte cose che della mia vita fanno parte.  Questo equilibrio sembra funzionare abbastanza. Anche quando si torna di notte su per l’impossibile salita nel bosco. Anche quando stanche ci si accascia su un pulmino che da Rockridge, da San Francisco, dal parco, dal lindy, dallo sconosciuto in camicia a quadretti e fazzoletto rosso ci riporta a Mills, isolate, intrappolate dentro l’odore degli eucalipti. In questa Fortezza Bastiani dove si aspetta che accada tutto ma invece non accade nulla: i Tartari non arrivano mai e i giorni passano tutti uguali, dilatati, slabbrati sotto un sole che scalda solo da mezzogiorno alle cinque. Per scongiurare questo senso di perenne attesa e, allo stesso tempo, di totale ed effimera presenza, ho deciso di fare qualcosa di concreto: ora dunque ho un cellulare con un numero di telefono americano e posso farmi venire a prendere da un Uber, sentirmi uguale a tutti gli altri. Infinite possibilità di fuga mi si spalancano davanti. Basta solo decidere di prenderle, salutare e ciao.

Ma anche qui dentro la fortezza è bellissimo. Il posto è abitato da coreani svelti e spettinatissimi, arabi misteriosi che giocano a calcio come carpentieri e biondezze assolute che tagliano l’aria: lampi contro l’azzurro. Senza averne l’aria, questi lampi squarciano cielo e cuori; e ti lasciano a bordo strada malridotto, a implorare pietà o, almeno, un’ultima occhiata.

Qua nella mia fortezza ascolto Otis Redding mentre da fuori arrivano suoni di aerei, sirene di polizia e continuo stridore di ruote sulla strada. Fuori c’è Oakland, infatti, che è una striscia d’asfalto grigio se non la guardi bene. Ma se la guardi meglio è invece colline scure e rotonde, piene di case, bambini, cani; Bob Marley sull’autobus che muove la testa sotto le cuffie; le luci arancio della sera appena iniziata dietro Telegraph avenue e quel Wallgreen che ha i Chip’s Ahoy della Nina. Un posto da prendere in considerazione per vivere. Basta non girare mai a sinistra fuori dal college.

Quando invece mi piglia questa cosa qui che non si spiega, ascolto Father John Misty. Come adesso. Forse perché a un tratto oggi dopo la lezione sui fratelli Castiglioni e divani come prati o anche come foreste, qualcuno ha detto: “Non posso credere che siamo alla fine”. La frase è rimasta a mezz’aria, sospesa. Il senso di un tempo scivolato via così, inavvertito, ci ha lasciato sgomenti. Un attimo; l’abbiamo sentita tutti, quella cosa lì che non si spiega. Ma siamo rimasti zitti. Non ci siamo neppure guardati. Siamo usciti fuori in un fascio di sole e di alberi, schiacciati da tutta quella luce, da tutta quella California e dalla distanza che ci sarà.

Senza averne l’ariaultima modifica: 2017-07-28T10:39:11+02:00da capecchi
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