La meraviglia dell’ombra gialloazzurra

Un enorme quadrato di ghiaccio galleggia in mezzo al negroni, fatto con un vermouth comprato all’ultimo momento dal pakistano dietro l’angolo. “E quindi cosa dobbiamo fare?”. La domanda casca sul tavolo in questo 25 aprile d’estate, a Bologna. “Quindi dobbiamo scrivere, dici?”. Così, al plurale, come se scrivere fosse un’operazione collettiva. Così, con quel sopracciglio alzato che è lo stesso di quando ballo distratta o dico parole sgarbate (quasi mai: sono una tipa molto affabile).

Mentre discutiamo di scrittura, storie d’amore e uguaglianza sociale, la sera passa dall’azzurro all’arancio senza che ce ne accorgiamo e sarà la musica, sarà l’aria o sarà il vestito di pizzo verde ma sembra di non avere (avuto mai) nessun altro impegno al mondo se non quello di stare lì a ballare, bere, parlare e non parlare dentro un quadretto di vita cittadina, minuscolo, leggero, un po’ svagato.

Siamo arrivati fin qui, in questo punto esatto del mese e dell’anno, dopo un sacco di giorni che non mi ricordo più. C’era l’orrido gennaio che è durato sei mesi. Poi febbraio con tutto quello swing dentro. E marzo, Londra e la neve che infuriava e non smetteva mai. Quando poi è arrivato aprile, ho preso un treno e delle scarpe col tacco molto molto alto per calpestare sanpietrini e paure. Come a dire: se non cado da lassù posso fare qualunque cosa. Così ho aperto la valigia, attaccato gli abiti nell’armadio e pensato: gli alberghi di Roma hanno tutti lo stesso odore. Una muffosa stinta grandezza, una rincorsa (perduta) al passato e quel senso di sensuale solitudine che t’avvolge come in un bozzolo. Ma soprattutto ci sono tutti quei pini là fuori; con i loro profili pieni stampati contro il cielo. Che sono belli, bellissimi, sfacciati. Ma del tutto impotenti di fronte alla meraviglia dell’ombra gialloazzurra in giornate bolognesi come questa. Dove il cielo appare a scaglie, dietro gli archi, sopra il Portico dei Servi – che solo agli impuri di cuore non evoca misteriose e grezze tardoadolescenze vissute di rincorsa, nascosti fra una colonna e l’altra, disperati o follemente felici. Quando non ti accorgevi del sudore, del vento, della mancanza di logica e della gonna troppo corta. Ritrovi oggi, qui, un po’ di tutto questo: ballare roteando in strada e fidarsi di quel casqué che arriva proprio dove deve arrivare non è, appunto, contro ogni ragionevole gesto adulto? Non è quel modo lì di lasciarsi prendere una mano e guidare in mezzo ai ballerini un atto di stupida incoscienza giovanile? Dev’essere per questo che mi viene da sorridere così, anche se mi hai appena detto che sono vecchia vecchia vecchia e dovresti vergognarti, tu – screanzato. Avrei dovuto alzarmi, schiaffeggiarti e andarmene, in un roteare di gonna e vetri infranti. Una nuvola di pizzo e orgoglio sparita di colpo in mezzo a qualche vicolo.

Ma comunque. Stasera è estate. E il primo annuncio d’estate vuol dire ogni volta tre cose: la festa sul terrazzo; il saggio swing; l’America. Tutti scenari ugualmente belli e inquietanti, anche se per motivi molto diversi. Il livello di aspettativa impossibile che di anno in anno il terrazzo sopra la stazione porta con sé, fatto di leggende e non-ricordi rotolati giù lungo il cornicione; il disagio meraviglioso di una specie di prom di fine anno, con tanto di incartocciata richiesta a questi leader quasi belli e indecifrabili: “Ma tu ce l’hai una ballerina?” – momenti che neppure negli incubi peggiori pensavi di poter vivere; e infine il tutto che l’oltreoceano significa.

In questa sera e in questo posto senti vibrare proprio tutto ciò. E ti piace, ti emoziona in un modo buffo e vagamente malinconico. Soprattutto ti ricorda che i giorni d’improvvisa estate vanno accolti facendo finta di nulla ma in realtà buttandocisi dentro come se fossero gli ultimi, come se avessimo vent’anni, come se il Portico dei Servi fosse solo una canzone e non – invece – la vita. Che corre, corre, corre e non la fermi più.

La meraviglia dell’ombra gialloazzurraultima modifica: 2018-04-26T15:45:06+02:00da capecchi
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