Solo nella memoria

È tutta finestre aperte e musica che sguscia via sotto le tende, questa città ferma nel tempo. Un posto che esiste solo nella memoria e poi più nulla, sparito, finché qualcuno un anno o un secolo dopo si ricorda che sta lì da qualche parte, e lo ritira fuori, con tutto il suo corredo di fazzoletti di seta e bastoni da passeggio. È un posto dove di giorno si balla e di notte si sogna di ballare; anche se ogni volta, misteriosamente, è la parte di realtà quella più sfumata, mentre il sogno assume i colori netti e vividi della cosa vissuta: un ribaltamento che in pochi altri luoghi, come qui, capita di vivere. Succede per esempio un po’ a Mills, Oakland, California. Ma quella è l’America, bellezza, dove la distanza fra reale e immaginato non esiste e ti sembra ogni giorno di vivere la vita pensata da un altro e poi, di notte, di sognare la tua.

Una volta che capisci l’inconsueto slittamento, è fatta. Balli e ondeggi come se quella vita fosse sempre stata la tua. Come se non avessi fatto altro al mondo che vestirti così tutte le sere per andare a cena: fiori fra i capelli, abiti dorati e gilet di raso. Una musica continua fra le mani e sotto i piedi, sempre, sempre, sempre, a confermare che quella è appunto una scena di fantasia, perché nella vita vera la colonna sonora mica ce l’hai.

In questo non luogo a metà fra il sogno e la veglia sta una taverna rossa. Stiamo tutti schiacciati là dentro, sotto un soffitto basso, in una notte caldissima e fradicia di passioni: tutto nasce, finisce, si riaccende; si fa finta che non ci sia mai stato ma invece sta lì, a pulsare in qualche punto dello stomaco, dentro i bicchieri di gin o nella voce fonda della cantante nera. Che dolore, a volte, ballare e basta senza dire nulla. I musicisti in completo bianco e fiore rosso arrivano diretti dall’orchestra di Billy Bartholomew, Palais de Danse, Berlino. Hanno baffi biondi e occhiali da futuri fiancheggiatori del nazionalsocialismo – ma sono tutti bellissimi. Facce impassibili sotto un diluvio di sentimenti diversi che i ballerini riversano sulla pista. È il 1929, tra poco crollerà tutto, e loro lì, a suonare. Che meraviglioso precipizio ci aspetta, non lo vedi? Hai fatto proprio bene a indossare questo vestito a fiori: ti proteggerà nella caduta. Sì ma tu acchiappami bene se scivolo, mi raccomando. Voglio buttarmi ma ho tanta paura.

Eppure il giorno dopo c’è il sole. Ma un sole di quelli che allagano i terrazzi e colano sulle persiane. Così siamo tutti quanti – credo – felici. O forse è merito di quel tipo dal sorriso aperto che muove le lunghe gambe e la sua ballerina come fossero fuscelli: tutto ruota e si trasforma in un volo a due metri da terra. Gioia pura. O merito delle borse color verde, delle tante possibili scarpe da scegliere e delle amiche di sempre, quelle che sanno cosa pensi prima che tu lo pensi. O forse soprattutto merito del Meraviglioso Principe Nero che muove le spalle e conta gli attacchi in un modo che solo lui sa e che più o meno fa così: a-ah, a-ah, ah-ah-ah, a-ah. Dissolvenza. Insomma chi lo sa. Ma essere qui, pestare le assi di legno, sbagliare un altro passo, sorridere tutto il tempo nonostante il disagio di fronte all’algido maestro degli anni Quaranta sembra l’unica cosa da fare, al momento. Fuori c’è questo lago di luce, questa verde estate che ti sorprende un po’, perché per te qui sarà sempre autunno, foglie gialle per terra e viaggi in un treno di novembre.  Sarà sempre una notte troppo fredda e una camminata troppo lunga da fare nel silenzio ovattato del mattino.

Poi di colpo ti volti ed è esploso il sabato sera. Bum. Uno sbuffo di jazz e ottoni e uuuh sotto il palco e paillettes rosse, capelli color platino e lampi oro, nero foresta, verde smeraldo, argento conchiglia, rosa alba di maggio, viola araba fenice e grigio fumo, bronzo rovente, azzurro lapislazzulo. Che ore sono? Che anno è? Da quanto stiamo ballando così davanti al trombone che spinge senza tregua e al batterista killer che sorride come Jack Torrance? Goccioliamo, vortichiamo, facciamo volare capelli, sudore, punte, tacchi e il soffitto diventa pavimento e il pavimento soffitto e d’un tratto capisci che è per questo motivo che sei lì e non altrove: sei al centro del mondo, intorno a te ruota tutto quello che esiste e nulla, nulla, nulla di male potrà mai accaderti finché resterai lì a ballare davanti a una famiglia di pazzi scandinavi tzigani che si scambiano strumenti come strette di mano senza smettere mai di suonare. Quando, dopo, tutto torna da su a giù e le pulsazioni riprendono il loro naturale ritmo pensi che potresti già uscire e andare via. Quella mezzora vorticante è valsa la notte. A posto così. Ma invece rimani perché la musica è ancora infinita ed è lo swing a comandare. Dove vorresti scappare? In questa girandola di musicisti e ballerini e innamorati spezzati in due ma apparentemente interi, ti aggiri tu, pensando che in una festa così manca solo Fred Astaire a farti fare il casquet. Pare d’intravederlo, quasi, dietro qualche coda di tuxedo, ma purtroppo invece no, non è lui. Farai allora come se. In fondo questo posto vive di mancanze. È un guscio che esiste solo nella distanza. Può darsi che sia vera soltanto la lontananza, vero l’oblio. La caparbietà dell’assenza è fondamentale per alimentare la magia, come diceva uno che aveva capito tutto. Sicché tutto ciò che manca, alla fine, è quello che conta. La magia è tutta lì: nelle ombre che sfuggono, nel vuoto invece del pieno, nelle cripte, nei buchi, nei nascondigli dove si custodiscono i segreti. In questa Salsomaggiore ricordata da chissà chi una volta ogni anno, una volta ogni secolo. In un ballo all’alba in una piazza vuota, un pianista in giacca bianca con una ragazza vestita di rosa: non si dicono nulla, ballano solo, poi si scambiano una, due, cinque sigarette. Sono sulla porta dell’albergo. Si guardano. Non si toccano. Si dicono addio. Spariscono. Nel cielo, il blu scuro è diventato arancio, poi bianco, poi azzurro. Intorno non c’è nessuno. Salsomaggiore non esiste più.

Solo nella memoriaultima modifica: 2018-05-16T13:35:33+02:00da capecchi
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