Le stanze di Gaia

Ingombro, tragico, disfatto

Ieri mi sono alzata e c’era un cielo. Era come livido; no, grigio affumicato; no, giallo di cosa marcia; no, marrone come un pugno di terra masticato fra i denti e poi sputato. No, ecco com’era: effettivamente grigio, ma come illuminato al suo interno da quei lampioni giallastri delle brutte periferie. Comunque faceva paura. Anche perché era basso, schiacciato sulle cose e le persone; ed era ovunque, intorno. Un cielo “ingombro, tragico, disfatto”. Viaggiare in macchina sembrava entrare in qualcosa di mostruoso: non era reale, di sicuro. La gente che incontravi, tutta, a scuola e fuori, diceva qualcosa come “Che succede? Che aria c’è? Che colore ha il cielo?”. Ma i più non sapevano spiegare bene il colore preciso; o l’effetto che faceva sulle proprie paure. Ci siamo mossi tutti, in quelle due ore di irreale sgomento, come in preda a movimenti meccanici, in attesa di un qualunque catastrofico evento, un’esplosione, un rovescio, un disfacimento improvviso ed enorme che potesse cambiar luce alle cose, anche se (magari) distruggendole. Alle nove e venti circa l’aria è cambiata, la neve fuori è ritornata neve, il grigiobianco del normale mattino invernale si è sistemato su tutti i tetti, gli ingranaggi del sabato – seppure cigolando – si sono rimessi in moto. La fine del mondo, insomma, non è arrivata, anche se tutti l’aspettavano col respiro bloccato e l’occhio spalancato di stupore, incerti fra il terrore e un compiacimento stolido, muto.

Ingombro, tragico, disfattoultima modifica: 2004-02-22T17:50:00+01:00da
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