Le stanze di Gaia

Una barba che graffia

Da oggi, improvvisa, questa voglia di Fossati. Percorro i soliti novanta e qualcosa chilometri di treno per tornare a Bologna e guardo fuori. Il fuori mi inchioda, sempre. Guardare di là da non m’annoia mai. I viaggi in treno non mi annoiano. Stare seduti accanto a qualcuno che guida e buttarsi in campi case strade macchine finestre notti, a me, non m’annoia. Proprio mai. Se poi mi pigio nelle orecchie musiche che sezionano esattamente il momento, allora, posso anche piangere – se mi va. Ché tanto la gente sui treni e contro i finestrini ti guarda e mica ti dice nulla. Allora insomma oggi Fossati. Me lo sono portato dietro così, perché non l’ho mai ascoltato tanto e volevo rimediare. Sono partita da Firenze con quel solito senso di spossatezza che mi schiaccia sui sedili. Le facce incrociate, con le loro borse a tracolla e i cappottini fuori stagione, che mi sembrano sempre un po’ violente. Il bisogno irrevocabile di silenzio. Le Operette morali di Leopardi ed Eva di Verga che mi cesellavano i pensieri in rilievo. Il retrogusto di plastica amara di un cibo che non volevo. Poi Fossati. Va bene perché quando hai questi stati d’animo su sfondi di “grigio maiuscolo”, come direbbe la mia amica lontana, non è che puoi metter su qualsiasi cosa. Il jazz a volte non basta. Ci vuole voce grossa e ruvida, di quelle che non abbelliscono le parole ma le sputano e le mordono senza finti complimenti; poi serve una barba che graffia e denti che si vedano bene, poco timidi, denti che siano denti, senza tante discussioni. Almeno ti senti nel mezzo della vita, presa e tirata giù dal treno a forza, scaraventata contro il primo muro di galleria che incontri.

Una barba che graffiaultima modifica: 2004-05-13T19:20:00+02:00da
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