Le stanze di Gaia

Uno strappo


Dime que no
è un pezzo che ti piglia e ti ribalta. Sentilo là. Senti là come fa.

E’ ancora estate, siamo in qualche città deserta e fa caldo. Fa molto caldo. Quel caldo sfatto e definitivo, cui si può solo arrendersi. E i vestiti non stanno come devono stare, l’orlo della gonna si appiccica più su del ginocchio per colpa dell’aria bagnata e le scarpe fanno male e la camicia è stropicciata di sudore e smanie. Addosso, quei visi perlati di un’umidità cubana e fortissima. E’ una notte passata in strada, appoggiati a cofani di grandi macchine o contro pareti color pastello, ridicole contro l’oscurità rossastra dell’estate. Si beve quello che c’è e non sempre quello che c’è è fresco e consola. Ma si butta giù uguale, perché la gola si senta investire di qualcosa, qualunque cosa. Il piano si consuma e gli occhi si fanno più lucidi. La notte è enorme e avvolgente, cola giù precipite sulle teste di tutti come una pioggia estenuata e tiepida. Poi qualcuno prende a ballare. Con uno strappo improvviso qualcuno si alza e acchiappa una mano ed ecco appiccicarsi madidi nell’afoso notturno del sud, mentre fra i corpi non c’è più spazio né modo di respirare. E lenti, lenti, lenti muoversi al ritmo delle mani sulle percussioni, infilandosi negli accordi del piano, ancheggiando appena, senza spostarsi da dove si è. I piedi, fermi; le unghie, no: a dragare la pelle, incidere, ferire. E lenti, lenti, lenti dondolare accettando la caduta. Inspirare materialità e disperazione come solo chi non ha nulla può fare. Ballare avvinghiati, tenersi su per non cadere, appoggiarsi dove si può. Poi sentire le carni divenire liquide e lasciarle sciogliere, scivolare via, perdersi lungo le strade buie e terrose di Cuba, rovinosamente.



(Roberto Fonseca, Dime que no, da Zamazu. Musica per notti in cui perdersi, lenti)

Uno strappoultima modifica: 2007-06-25T16:41:24+02:00da
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