Le stanze di Gaia

Psiche: laghi indiani d’aria e cuoio che gnicca

Aspetto ogni volta Paolo Conte come si aspetta un amore. Ma anche un vecchio saggio da cui speri risposte.
Dunque è arrivato. E io l’ascolto da tre giorni. Di continuo. Senza tregua. Sono rimasta muta, all’inizio. Sospesa in un sovracielo a chiedermi: …mah?…cosa? Lì per lì non l’ho riconosciuto. Lì per lì mi son sentita buttata in una specie di terreno desertico, lontanissimo, vuoto. Mi aggiravo là dentro un po’ sgomenta. Non mi sono accorta, sul momento, che era lui. Mi son quasi sentita tradita. C’erano suoni strani. Quei synth. E io che non so nemmeno cosa sia, un synth. Anche se non era solo una questione di synth. C’erano anche i violini, certo. Ma i sassofoni? I sassofoni dove? Poi però c’erano anche loro, ma meno. E c’erano anche il corno francese e il clarinetto. C’erano tutti, sì. Ma mischiati in modo strano, presi e orchestrati da una mano arcaica e irriconoscibile perché del tutto nuova. Eppure certi lampi li sentivo. Qualche nota arrivava a scardinare angoli; qualche parola si staccava dalla pagina scritta, dai baffi grigi, dalla sua maglietta nera e su, su, arrivava al cervello, dentro il cranio, perfino.
Poi è successo d’improvviso: si è sciolto tutto e giù. A precipizio. A travolgere appartenenze e grumi d’amore irrisolti. Eccoti lì, Maestro, com’è che non ti avevo visto? Perché le note son sue, le parole son sue, le atmosfere son sue. Come fa cadere l’accento su certi ma oppure come sgretola farinoso le parole lui nessuno lo fa. E’ lui, è lui, ma sì che è lui. Solo che è tutto molto lunare, notturno. Un’Elegia ancora più umbratile. Swing e rumbe, qua dentro, mancano. Perché è tutto più dilatato e perso; sottilmente steso a pennellate lente e piene. Talora vivide come uno schiaffo; talaltra sfumate come dietro a un velo, una serranda abbassata. Allora finisce che il disco s’insinua e ti s’affollano ovunque, intorno, davanti agli occhi e dentro le vene, laghi indiani d’aria e stanze di luna per parlare. Si sovrappongono gesti timidi, pruriti torridi, un’aria di melarancia. E a Berlino non si sa come piove una pioggia spagnola, ci son gesti randagi, ci son carezze. Ci sono sassofoni e strade che immagini, lunghe e grigie, bellissime nel tremolìo dell’acqua. Bellissime nelle scarpe nuove, dentro prove di sogno e di luce. Ci sono quelle rime così sbagliate ma giuste, che ti danno il senso della continuità, del riconoscersi: sei bella senza ritegno / nell’acqua fresca di un bagno, dice lui. Infatti lei la vedi, lì, a specchiarsi bella lontana fresca e desiderata; ma sola. C’è la bici futurista che va declamata come una poesia; c’è una donna d’acrobati, oppure una cavalla, non è chiaro, non importa, perché tanto al fischio è la cavalla, che si gira, in quel suono che fa così: gnicca. E gnicca tu pensi, tu sai, tu senti che solo lui lo può mettere in una canzone: il cuoio che gnicca è lui. E’ come l’odore di gomma e di vernice, di altri tempi e altri luoghi e altri piedi che pestano il pavimento. Ma son sempre quei suoni lì: suoi e di nessun altro. E infine tutti quei gerundi dell’amore, che se l’amore non è un gerundio ditemelo voi cos’è. E’ tutto un illudendo, un lusingando, un incantando e poi morendo. E’ l’oltremare di un assurdo, certo. L’amore che trafigge me, lascia che dica, non so cos’è, non lo so mica, ma credo in te, dolce nemica. Canta lui. E io penso uguale, affondata in note lunghissime e perlate, un silenzio indiano anche qui, stasera. Lo penso anch’io che non lo so mica, cos’è, non lo so davvero. Ma quando lo ascolto, adesso, è amore quello che sento. Quello che ho sempre sentito.

Psiche: laghi indiani d’aria e cuoio che gniccaultima modifica: 2008-09-22T20:24:00+02:00da
Reposta per primo quest’articolo