Le stanze di Gaia

Torna il prodigio: Nelson di Paolo Conte

 

 

Il nuovo disco di Paolo Conte è un vecchio disco di Paolo Conte. E ascoltandolo ti viene da piangere, da ridere, immalinconirti, innamorarti e ballare stretta dentro lucide scarpe stringate; come facevi una volta quando la vita pareva montata insieme con pezzi balordi di musical e vecchi film col rallentì.

È così tanto un meraviglioso vecchio disco suo che quando inizia quel piano lento e pastoso ti senti salire su per il naso gli odori afghani di donne d’inverno. Mentre invece si canta di dolci persone, prodigi e foglie. Il clarinetto basso che s’arrotola e si srotola, scava e seziona languori, percorre con l’ancia vibrante la schiena nuda sotto i vestiti. Però non si fa in tempo a sciogliersi nelle brume autunnali di Tra le tue braccia che parte la chitarra e gli orchestrali dietro, bravi. Un raccontino inglese ma suonato da Djiango. Dittafoni che parlano e grammofoni che suonano; quaranta inglesi stupidi che leggono giornali per stupidi. Vien da sorridere lievi come leggendo Woodhouse, come incontrando il maggiordomo Jeeves. Jeeves, oh Jeeves, perché mi vesti come un boyscout, dimmi? Piuttosto salvami, Jeeves. Ti prego, Jeeves, c’è la zia Dorotea che mi chiama al telefono, c’è Doody Priscilla che vuole ballare. Senti, Jeeves, trova una scusa per me; ma trovala subito, Jeeves.

E mentre la musica va t’avvolgono parole francesi, inglesi, spagnole. T’avvolge un alfabeto che capisci e non capisci. E tanto più è bello quanto più ti sfugge, nei suoni sporchi di quelle erre arrotate, di quelle effe frusciate. Brumeux, chien perdu sans collier, soldat, marchand, prodige, enfant hereux. Che hai detto, tu? Perché io davvero non lo so, ma che bello che era, che meraviglia e che sogno e che fuga. Ascolti e ci sono violini. Saltano le corde dei contrabbassi segnando il passo lungo la strada, sotto galosce selvagge, sotto un sole che parla napoletano, in città di luna e di pietra, in mezzo a camminatori che non sono mai partiti sul serio. Ci sono tamburi che picchiano, che portano afriche e frutta fresca. Suoni zulù, echi di caverna. C’è una Nina che porta amore e un vestito giallo sopra la pelle nera. Ci sono clown, velieri di Shangai e massaggiatrici sognate al profumo d’acqua di rose, piccole figurette melanconiche e sbiadite dentro i tasti del pianoforte. Sono facce che conosciamo, ritratti storti di personaggi da operetta o da tragicommedia. È un sipario che si apre sul mondo finto del teatro, del cinema, della poesia. È un mondo-caleidoscopio, letterario e lontano. Ma allora perché ci caschi dentro così? Perché ti sembra d’esserci, là sopra sul tetto di quel grattacielo a ballare il mambo e a farti strapazzare da un uomo robot? Un uomo ferraglia mentre tu sei fiamma, sei vento di raso rosso, sei anima persa. Oh, el mambo amor, mambo locura, mambo señor.

È tutto un correre via d’orchestrine, di fisarmoniche, di ritornelli che fanno trallalà. Odalische nude che ondeggiano i fianchi. Albe aspettate sul mare. È il finale batteristico, krupiano, di Bodyguard for myself. E’ un vecchio universo perduto, ritrovato, poi riperso ancora e poi spuntato fuori come dal nulla; ancora e ancora. Pare stemperarsi la stanchezza estenuata di Elegia; ne resta qualche ombra in Suonno e’ tutt’ ‘o suonno ma esorcizzato nell’azzurreria. Pare sfumarsi la cupa introspezione di Psiche. Tornano il lampo di genio, l’uragano, la furfanteria. Tornano le storie d’amore minime dentro le vite inquiete. Torna il vecchio Maestro. Torna da te. Che te ne resti lì, palpitante, sciocca. Stregata. In balìa di un prodigio che pare sospeso sopra le note unisone dei sassofoni di un caffè novecento.

Torna il prodigio: Nelson di Paolo Conteultima modifica: 2010-10-13T14:27:00+02:00da
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