Quando dopo il concerto srotolo le strade su un altro taxi che mi porta in un posto ignoto, intravedo pezzi che mi pare di ricomporre ma poi invece no, non lo so, tutto mi sfugge. C’è Parigi, là fuori? È la Senna quell’acqua lucida e fonda laggiù dietro gli alberi? Chissà. Non m’importa. Arrivo in questo posto buio, tutto tetto basso e gente coi bicchieri in mano. Uno con gli occhiali e la felpa grigia mette della musica potente. Se ne sta lì dietro una ringhiera nera, tranquillo, sembra il fratello grande di una compagna di liceo, e non diresti che ha suonato e cantato prima dei Radiohead quattro ore fa in un’arena con millemila persone urlanti. Io ho come tutti un bicchiere fra le mani; e aspetto. Ballo e aspetto. Finché il dj che aspettavo arriva. Compare in mezzo agli altri dietro i computer, le batterie, le casse e le attrezzature ed è come se fosse sempre stato lì. Ha i capelli sciolti. Brillano di rosso in quelle luci sotterranee. Sorride, muove la testa, mette la musica, balla, balla, ride, balla, sorride. Ha la faccia stanca. Sembra felice. E siccome io ho aspettato e ho preso molti taxi e un aereo e diversi colpi al cuore, lui inizia con Duke Ellington. Così mi finisce. Io davvero mai, mai nella vita avrei pensato di trovarmi di fronte Thom Yorke che sceglie del jazz per me. Gli altri non ci sono, sparisce tutto, resta solo il buio intorno e noi dentro con quella luce rossa e Sophisticated lady e poi i bassi che partono: tump tump tump. Dritti nello sterno, senza pietà. Non resta che ballare. Non resta che guardarlo ballare, capelli sugli occhi, barba e maglietta. Non resta che uscire poi in questa cellula immaginaria di spazio in cui sono caduta e guardarmi intorno e respirare il freddo della notte quando la stessa onda biondo-rossa appare fra gli altri, sotto i lampioni gialli e dentro un cappotto nero. Tre passi, due, uno. Respiro. Tutto è lì, non bisogna far altro che prenderselo. Son qui apposta.
Molte cose mi son rimaste di Parigi – tranne Parigi. Di certo è rimasto Ed che ride, mette una mano sopra il suo cuore prima d’andare via e ci abbaglia quando sorride. Oppure le braccia dietro la schiena del dodicenne Jonny quando parla in francese e dice: “…notre chanteur a peur de parler français, moi j’ai peur de parler du tout”. La rissa che c’è stata accanto a me e che mi ha fatta riparare dietro la schiena del ragazzino perbene che salmodiava The national anthem. La coca zero nel bicchiere di plastica e la barretta di cereali mangiata in albergo a mezzanotte, dopo un giorno di digiuno. Ma soprattutto i capelli chiari e lo sguardo di Thom mentre mi dice “Thank you”; nella mia mano la sua mano liscia e fresca del freddo di una notte di una città sconosciuta che di certo non è Parigi.