Cascata dentro all’Inferno dantesco, mi aggiro su ronchi scoscesi e avide serpi. Fantasmi già di per sé fantasmi che si fanno cenere; e poi si ricompongono, ritornano uomini di niente, ombre. E un altro serpente, la lingua puntuta, di nuovo, nel collo. Dissolversi; in cenere; ricrearsi; in ombra. Così, all’infinito. Chelidri, iaculi e faree, chencri e anfisibena. Per ovunque ti volti. Per sempre.
Ma io insomma m’affaccio lo stesso a dirupate bolge e lo faccio in scarpe rosse, di camoscio, con il tacco, perfette per lasciarti cader giù ma anche per incastrarsi a qualche scheggia o radice, e salvarti.
La settima bolgia risucchia nel frattempo patemi grammaticali e strani capogiri, dovuti senza dubbio all’assenza di formaggini buoni per il cuore e l’umore.
Ed è mentre mi gira la testa così, in bilico su questo mondo franante, che lo sento, lo percepisco bene, diretto, nel corpo: ho bisogno di jazz. E di Gerswhin. Infatti Bill Evans appare l’unico, al momento, capace di restituire fiato e tempo. Comprensibilità.
(Bill Evans, I loves you Porgy, in At the Montreaux jazz festival. Musica per quando si cerca di respirare)
Mi manca anche il Bill Evans della situazione. Porca miseria.
Ti direi di buttarti su Sferra, che lenisce sempre parecchie mancanze. Come spazzola lui non spazzola nessuno. Magari poi riesci pure a dormire.
Il mio orecchio non è fatto per george, non questo almeno.
E’ troppo ridondante.
Così m’ha detto…
Anche per me bill evans e gershwin sono ossigeno, sembra che tutto sia lontano dall’inferno quando ascolto questa commistione.
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