In orbita

A un certo punto della notte il terrazzo dev’essere esploso. Partito in orbita con pergola bruciacchiata, piante arruffate e tutti noi sopra, lanciati verso la luna e in mezzo alle nubi che si sfilacciavano nel cielo. Tutto quello che è successo prima era fatto di scoppi di sorrisi e cubetti di ghiaccio che rotolano per terra. Il campanello non smetteva di suonare un attimo, dal momento in cui correvo con indosso il kimono azzurro a fiori di Hank Moody a quando roteavo in un abito di ciliegie rosse e acqua tonica. Ogni volta che la porta si apriva, un altro triangolo si disegnava nell’aria: amiche in abito rosso e giallo, gentili fanciulle bionde, ragazzacci con gli occhiali scuri e la pistola nel gilet. Ogni volta cambiava il colore dello sfondo, la prospettiva del ballo o il bicchiere da riempire. L’arancione dello spritz, il bianco del gin tonic, la perfetta trasparenza di un Franciacorta trovato sul tavolo per caso: toh, lo bevo. Ogni volta cambiava quello che si sentiva nello stomaco, e nel cuore. Le partenze, gli addii, i ritorni, le mancanze, tutti quegli errori accatastati insieme ai bicchieri, lacrime che là sotto ci sono anche se non si vedono, centinaia di dubbi e qualche sfacciata sicurezza. La faccia che di solito indossi per l’occasione.

Gli ospiti danzanti e i semplici osservatori s’incrociavano nel corridoio con i loro sacchetti pieni di cibo, con le mani occupate da bottiglie, bottiglie, altre bottiglie. C’è stato infatti un momento in cui si è perso il conto delle persone, del ghiaccio e delle sedie (rotte). C’erano quelli che ti facevano ridere tanto; le facce nuove che non vedevi l’ora diventassero vecchie; quelle vecchie che dovevano essere sempre lì un passo dietro se no ci si sentiva perduti; quelli con cui un ballo solo è troppo poco; quegli altri che volevi abbracciare e abbracciare forte e non farli andare via mai più; e tutti, che non facevi in tempo a strapazzare un po’ perché già sgusciavano via. Tutti spariti e avvolti dentro il vortice del terrazzo, dove la musica saliva verso i gelsomini e si avvitava intorno alle luci, alle foglie, ai capelli. Le mattonelle sotto i piedi scrostate e rovinate – lo sanno tutti ormai. Ma a nessuno davvero importava, perché laggiù oltre la ringhiera passavano treni su cui ciascuno avrebbe voluto salire. Destinazioni ignote o invece posti conosciutissimi dove andare a finire la serata o l’estate intera. Ma partire. Del resto già eravamo tutti da un’altra parte: Bologna era scomparsa, inghiottita dai lampioni della Montagnola, diventata qualcos’altro. Tetto al centoduesimo piano di New York; giardino pensile sopra il Tamigi; barcone che scorre lento sotto il Golden gate immerso nella nebbia. Eravamo tutti da un’altra parte e qualcun altro.  Come accade solo nelle feste migliori e nelle estati più memorabili: chi eri, tu, in quel giugno del 1935? E dove eravamo, noi? Dentro un musical di Irving Berlin, che domande. Io ero Ginger Rogers, tu Fred Astaire. Non ti ricordi che avevo sulle spalle delle morbide piume bianche e tu invece della cravatta portavi un ridicolo papillon bianco? Sì, infatti; e ballavamo proprio come adesso. Lo ricordo perfettamente. Ora zitta, buttiamoci nella notte e balliamo di più, che tra un po’ il terrazzo esplode, saremo tutti in orbita e chissà poi dove finisco io e dove finisci tu.

In orbitaultima modifica: 2017-06-13T18:11:28+02:00da capecchi
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