L’ignoto

Non so se siete mai stati a una mostra in mezzo a un parco, d’autunno inoltrato. Ebbene: fatelo. Scegliete un luogo con finestroni altissimi, soffitti lontani, gente rada. E perdetevi. Sarà bello girare intorno a misteriose sfere di terracotta, decifrare messaggi nascosti nei quadri, essere inghiottiti dal buio e uscirne subito, per paura, per bisogno di respirare: dove sono? Che succede? Come sono finita qua dentro? E perché queste ombre cinesi nel fascio di luce mi fanno ridere così tanto? Girovaghi in mezzo a distanze siderali e pianeti impossibili, sentirete come piccole vertigini oppure, viceversa, un senso di appartenenza forte a quello che vi circonda. Radicati a terra e alle panche di legno su cui vi siederete, osserverete vulcani che esplodono, viaggi di nubi e mari tempestosi. Non preoccupatevi se qualcuno nel frattempo dorme o se due si parlano all’orecchio nel buio. Ma sprofondate là dentro e lasciate che la Natura apparecchiata per voi da un vecchio armeno dalle spesse sopracciglia vi passi attraverso. Non ve lo scorderete più. E il vecchio armeno diventerà testimone di un preciso momento nello spazio e nel tempo, custode di quello che l’alluvione la tempesta il vulcano il deserto le maree hanno agitato in voi.

Insomma in un posto così io ci sono arrivata desiderandolo molto, dopo una corsa in ambulanza e una Milano vista solo a pezzi: cimase eleganti apparivano a sprazzi mentre pensavo che io dentro un’ambulanza non c’ero stata mai, se non quella volta in cui mi sono spaccata la testa e ho perso conoscenza. Dunque una volta che non vale, perché non ero davvero presente a me stessa. Comunque Milano pareva bella anche così, imprendibile e immersa nel sole. Io seduta dentro l’abitacolo pieno di bottoni, flebo, mascherine e luci inspiegabili pensavo che non li capisco, quelli che dicono: Milano è bruttissima. E lo pensavo anche seduta nella stanzetta color pastello del Pronto soccorso pediatrico, mentre aspettavo aspettavo aspettavo. Quando alla fine sono uscita, ho respirato a pieni polmoni e l’aria era ancora più cristallina. Stavolta mi sono rifugiata dentro un taxi dall’autista sgarbato. Eppure Milano era sempre là fuori; e sempre bella, color ambra scuro, quel punto preciso di arancione e di trasparenza che solo alle tre del pomeriggio in una città del nord a fine novembre può capitare d’incontrare. Nessun altro posto potrà mai restituire quel senso di struggente malinconia urbana, di rarefatto e perfetto svolgersi della vita apparentemente casuale di una metropoli d’autunno in pieno nord.

Quindi alla fine nell’ignoto mi ci sono buttata. Non ho visto stavolta gli enormi pesci del piano terra, né il corridoio rosso o il quadro nubiano col castello rovesciato nel mare (nel cielo?) di Gideon Appah. Ma lo stesso ho percorso stanze ricostruite dentro le stanze e camminato sempre alla velocità che volevo, né troppo forte né troppo piano. Lo strappo della mattina è stato ricucito con cura e pensiero, una specie di attenta e minuziosa ricostruzione di tempi perduti, raggiunti a fatica ma con pacata infallibile determinazione. Hanno aiutato i finestroni, i silenzi, la stupefazione per qualcosa che ci eravamo ostinatamente guadagnati.

Tornare verso il treno è stato allora lasciare l’ignoto per il noto, recuperare le conoscenze da sempre condivise. Eppure resta che – come diceva uno che di miracoli se ne intendeva – resta che qualcosa è accaduto, forse un niente che è tutto.

L’ignotoultima modifica: 2022-11-25T13:30:35+01:00da capecchi
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