Qui finisce il mondo

Mi sorprende lungo la strada una pioggia tropicale; ma livida e cupa, di catastrofe. Quelle piogge che dicono: qui finisce il mondo, addio. Infatti è proprio così: ecco la fine di quest’anno scolastico, di questi swing out straight e della fanciullezza della Nina, tutto d’un colpo. Sbadabàm. Un muro d’acqua che si rovescia giù e porta via quello che trova.

Eppure potevamo presagire la fine da un sacco di cose. L’odore dei gelsomini sul terrazzo di notte, per esempio, diceva qualcosa di tutto questo. Quando fra luci dondolanti e balli storti sotto una luna più luna di sempre ci si stringeva sopra la città, lontana laggiù in fondo, dovevamo in effetti intuire la fine imminente. Invece dentro le nostre braccia umide, negli occhi a fessura per il buio o per l’alcool, ci scambiavamo sguardi folli o disperati; risate di gioia grezza, concreta come il gin lemon nel bicchiere basso di vetro rosso; abbracci come ancore, sbilanciati ma solidi, profondissimi. Era una notte in cui tutto poteva accadere, tutto si mischiava: le panchine basse accoglievano segreti e ospiti misteriosi, gli oleandri rosa nascondevano mancanze e sorprese non fatte, guance che brillavano, mani che si sfioravano, memorie irrecuperabili – perdute –  il giorno dopo. Le prime tre ore lunghe un secolo; le ultime tre un secondo. Guarda, albeggia. No, non è vero. In una notte così, l’azzardo è lieve come il leopardo smette di essere solo una frase perfetta dentro una canzone perfetta ma diventa qualcosa che tu balli roteando, in quell’attimo fra la mano che lascia e la mano che prende; in quell’attimo che lui e lei son sembrati a turno niente ma hanno poi ripreso a masticare quella danza mezza dolce e mezza amara. E son rimasti lì, aggrappati a un tempo sbagliato o a una risposta data male, per cattiveria. Dadadadadà. Del resto il dolore che si dà a chi si vuol bene sarà sempre più spietato di qualunque terribile ferita inferta ai tuoi nemici. A ogni modo in questi vortici sopra il terrazzo sopra la stazione sopra Bologna, ogni notte sembra più lunga; e più bella. Che le seggiole rotte siano una, due o tre non saranno mai meravigliosamente malridotte quanto le nostre storie, sbrindellate o luccicanti a seconda del momento e del giro di vento. Gli strappi che ci sono stati, ecco, solo noi li conosciamo, anche se facciamo finta di ignorarli. Per questo brindiamo; e ci scordiamo di cosa abbiamo parlato; e del perché lo abbiamo fatto. Sappiamo solo, e bene, con chi eravamo, e le schiene che abbiamo toccato – come per caso.

Comunque niente supera in felicità il momento in cui suona l’ultima campanella. No. Non è vero: quell’attimo in cui salti urlando e tenendo per mano il tuo ballerino gli si avvicina abbastanza. Sei in mezzo a una giungla, le tigri sgranano gli occhi fra i cespugli e tu salti e ridi e gridi mentre gocce di sudore ti scivolano lungo il collo, le spalle, giù giù lungo la curva della schiena e poi le cosce le gambe le caviglie. Quanto avrai saltato? Tre centimetri? Due metri? Dieci? Di quanto si è alzato l’orlo dell’abito? In questo liquido scivolare, i capelli volano, onde confuse di mani ti s’agitano davanti e una sola rocciosa certezza ti tiene tutta intera: non potrai mai cadere, piomberai a terra proprio dove devi, acchiappata da due braccia che invece di stritolarti sanno come tenerti. È vero, lo strapiombo è qui, ma senti come io ti sostengo. Non penserai mica che queste braccia si facciano scappare qualcosa, qualcuno? Ne hai mai saggiato la consistenza? Sicché rieccoti, piedi sul pavimento e faccia alle tigri: sbranatemi adesso se avete coraggio. La giungla è giungla, ragazzi: vince chi mostra più i denti, anche senza usarli.

In questo sciogliersi dei giorni verso tutte le fini, è poi partita anche la Nina e io mi sono sentita d’un tratto perduta. Se qualcuno vi racconta che quella fanciulla tutta riccioli e dolci scorbuticherie non manca come l’aria, dice di sicuro una bugia. Sicché non ascoltatelo.

In questo giugno che dice la fine di un anno, c’è qualcosa di bello e feroce. Il tempo non si ferma mai, siamo di nuovo qui, tutto si chiude e tutto ricomincia. Nei polsi, l’ebbrezza del nuovo e l’angoscia dell’addio. Qualcuno non lo sa, nemmeno se n’accorge. Ma qualcuno sì. E allora ti dice, con uno sguardo negli occhi che mai saprai spiegare: “Adesso puoi anche partire per l’America”.

Qui finisce il mondoultima modifica: 2018-06-12T10:02:58+02:00da capecchi
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