Lettere dalla cattività

Sono un’abbracciatrice. Una che ti vede e ti tocca: mano su braccio, mano su schiena, mano su mano. Se bacio per salutare bacio davvero, le labbra sulla guancia, col segno del rossetto che poi va cancellato. Mi trattengo solo quando so che a qualcuno dà fastidio. Ma patisco. Sono un’abbracciatrice e se uno è più alto di me e gli voglio molto bene mi viene spesso – anche – da appoggiargli la testa sulla spalla.  Coi ragazzini in classe, uguale. Accarezzo teste, prendo la mano alle bimbe impaurite dall’interrogazione, li abbraccio forte nell’ultima lezione, a giugno, quando finisce la scuola – che ora non esiste. E siccome son fatta così, che mi piace sentire la pelle e la carne e i muscoli sotto le mani, questi lunghi giorni hanno proprio tolto a me un pezzo di me. Non ci sono tutta per intero. Ed è per questo che mi manca tanto, tantissimo, ballare. Essere presa per mano e portata in pista; respirarsi addosso, poi allontanarsi, poi di nuovo il respiro e il sudore che si mischiano insieme, stringersi più forte, lasciarsi andare, ritrovarsi, le spalle vicine, le gambe vicine, tutto vicino. Senza cercare una via di fuga o una distanza di sicurezza. Questo mi manca, del ballo: la meraviglia di rinunciare ai luoghi sicuri e buttarsi in qualcosa che non si sa dove andrà a finire, se non per il braccio del ballerino che prima o poi, tu lo senti, tornerà sulla tua schiena.

Ci sono i pesci in laguna, dice. Bene, dei pesci in laguna me ne frego. I pesci mi garbano morti, fritti, in un piatto, mangiati in un ristorantino vista ponte di San Francisco. Poi l’aria. Si è abbassato l’inquinamento. O vai, siamo tutti contenti. E invece no, perché a me l’aria garba inquinata, con i tubi di scappamento che sparano robaccia, e io fuori a tossire e chiamare un taxi. Il costo dei pesci che saltellano e dell’aria pulita siamo noi tutti chiusi dentro – o tutti morti. Perché non estinguerci, allora? Lasciamo il pianeta in mano alla Natura Matrigna, che tanto vince sempre lei, quella stronza. Sempre. I miei amici preoccupati per l’ambiente, che fanno la differenziata e usano carta riciclata – ne ho parecchi, giuro, anche se sembra strano – spero mi perdoneranno e continueranno a volermi bene, anche se io voglio tornare a vedere l’acqua della laguna grigia e sudicia per i vaporetti e l’aria fuori meravigliosamente piena di smog.

Vedo i miei alunni quattro giorni a settimana. Spiego, mi faccio spiegare da loro, chiacchiero, racconto aneddoti (il mio preferito: I say basta when I wanna say basta, ossia il mio litigio all’Orpheum theatre di San Francisco, agosto 2019, durante l’intervallo di Hamilton), correggo esercizi, bevo acqua e caffè, li lascio da soli per la ricreazione, li guardo uno a uno. Sorridono, sono distratti, sono molto attenti, sbadigliano, si alzano per andare in bagno, prendono appunti, mangiano la pizza, ci sono e non ci sono, ridono ma in silenzio. Sono tutti bellissimi. E a me ogni volta, ma dico proprio ogni singola volta, quando chiudo tutto dopo averli salutati, viene da piangere.

Il Despar della stazione mi piace tanto: scoppia di qualunque cosa, c’è poca gente e posso camminare sul marciapiede osservando i binari e il silenzio. Ci vado due volte a settimana. Oggi c’era una colonna sonora così: l’Inno di Mameli, Volare, Azzurro. Una dietro l’altra, davvero. Nel frattempo alle casse un vecchio con guanti e mascherina abbaiava contro la gentile cassiera che cercava di aiutarlo: “Stia più in là, insomma!”. Ho messo via gli agretti e i pandistelle e sono uscita in tutta fretta, un po’ più piccola e un po’ più triste.

Ma dalla prossima settimana c’è una grande novità: accendo google meet, sparo la cassa al massimo e faccio ballare funky ai ragazzini. Che dio Stevie sia con noi. Amen.

Lettere dalla cattivitàultima modifica: 2020-03-20T15:47:04+01:00da capecchi
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