Tutto di plastica

Due notti fa ho letto uno Steinbeck che diceva così: “Io ho sempre vissuto in maniera violenta, bevuto moltissimo, mangiato troppo oppure nulla, dormito dodici ore filate oppure perse due notti di sonno, lavorato troppo sodo e troppo a lungo per la gloria, oppure oziato per qualche tempo in un’estrema pigrizia. Ho tirato, spaccato, alzato, salito, fatto all’amore con gioia e accettati i doposbornia come una conseguenza e non come un castigo”. Mentre mi rigiravo nel letto, ho pensato che quelle quattro righe dicevano alcune delle cose che ci sono da sapere su di me. E dicevano perché questa fine di giugno non è la mia né posso viverci bene, dentro. Nulla, adesso, viene fatto con quella violenza meravigliosa della vita che scorre. La misura sembra essere la cifra di questi giorni di finta ripresa, in cui ci diciamo che va bene così, che d’accordo, sì, facciamo tutto. E infatti abbiamo fatto gli esami; ma a metà, da parti diverse dello schermo. Poi ci si vede fra amici, si esce, si va anche a pranzo fuori, ma sempre un po’ a metà; spunta infatti ogni volta qualche segnale di questa vita dimezzata – una mascherina, uno spray igienizzante appoggiato da qualche parte, sei asciugamani sei per quanti sono gli ospiti, traiettorie sbilenche di chi cammina sotto i portici. Si balla pure, certo; ma da soli, lontani, figurine ridicole di fu-ballerini che non si ricordano nemmeno più dove la mano di lui deve appoggiarsi per sentire bene il corpo di lei. Anche in America ci si va, alla fine, ma restando su continenti diversi e guardando facce che non riconosciamo come vere perché non si può allungare una mano e toccarle.

La bellezza incontrastata dell’esagerazione non ci è stata concessa, in questi mesi: io non ho urlato agli alunni spaccando porte e tirando pugni sulla cattedra perché a distanza, via, come si fa? Mica potevo spaccare una pentola della cucina. Sicché tutto è scivolato via come anestetizzato. La cappa di cloroformio in cui siamo avvolti rende le nostre giornate tutte alte uguali: pochi picchi, uniformità, rassicuranti strisce appiccicate per terra che ci dicono dove dobbiamo andare. Ci siamo costruiti una vita con misura. Ma per chi a misura non ha nulla – i piaceri, le forme, i desideri, i progetti – questa fine di giugno lascia parecchio perplessi, come in attesa.

Nel suo viaggio solitario attraverso l’America del 1960, a un certo punto Steinbeck arriva a Bangor, nella parte centrale del Maine, non lontano dalla costa atlantica, e finisce in uno di quegli squallidi motel come ce ne sono tanti, solo che in questo è “tutto di plastica: pavimenti, tendine, tovaglie di plastica antimacchie e antincendio, paralume di plastica”. Un mondo di perfetta e immacolata sicurezza. “Anche la cameriera portava un grembiule di roba sintetica”.  Steinbeck si deprime, si immerge nell’acqua calda della vasca sentendosi miserabile: “non c’era più nulla di buono al mondo”. Solo il suo cane che comincia a giocare con il tappetino di plastica lo mette per un attimo di buonumore. Ed è lì, nella vasca piena d’acqua dentro un motel di plastica, mentre ripensa al vecchio arabo che una volta gli ha offerto del tè alla menta in un bicchiere “così incrostato dall’uso che era opaco”, che formula la sua legge sui rapporti fra sicurezza e avvilimento.

Io credo che allora continuerò a leggere Steinbeck in queste notti d’attesa, per vedere quanto ancora racconta di me e quanto di questi tempi a metà, che spero finiranno presto e ci lasceranno riacciuffare la pienezza poco sicura e travolgente della vita vera.

Tutto di plasticaultima modifica: 2020-06-23T16:32:27+02:00da capecchi
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