Con ottusa cecità

Amo furiosamente l’America. Con stolida ferocia e ingenuità. La amo di occhi, di cuore e di pancia – soprattutto di pancia. Laddove un groviglio di passioni e paure e desideri s’arrotola indistinto senza farsi riconoscere.  La amo lì, in quel punto preciso del corpo fatto di fame e urgenze. Amo da sempre con ottusa cecità l’America. E odio questo posto. Il suo senso di abbandono e lento impolveramento; il perdersi delle cose per noncuranza e disinteresse. Quella sensazione di pantano in cui sprofondi, la nebbia che ottunde e nasconde, dal nulla, inspiegabile – così diversa dalla nebbia dell’ovest, gentile, fascinosa e pronta a sparire quando serve. Una nebbia che laggiù non è mai prigione, ma sempre slancio, limite da valicare, salto in mezzo all’oceano.  Odio non potermi spostare, non avere una macchina, un taxi, un uber, un autobus, un pulmino che mi porti in una libreria qualunque, in un caffè dove ci sia una connessione che funziona senza tante storie. Bennington, Vermont – lo stadio prima della morte. Davvero odio questo posto che, pezzo vero d’America, mi allontana dall’America. Che io amo – perché la amo. Ma allora cos’è che amo? Solo lo scintillìo dei tetti di New York? Solo i verdissimi e lucidi parchi di Boston? No, no. Macché. Amo anche le strade vertiginose e assurde della mia San Francisco – l’odore di marijuana appena scendi dalla Bart e risali a Powell street; la sgangherata e un po’ sbiadita rivolta di Berkeley, quella luce del pomeriggio tardi che c’è a Los Angeles, il campanile bianco di Middlebury, il deserto – sempre – in ogni sua roccia e ventata e joshua tree; perfino, anzi forse soprattutto, la fauna ruggente della sporca Oakland – Dio, che fitta di mancanza. Ma allora. Allora: si può amare qualcosa, qualcuno, di cui vuoi tutto e che vedi però tarlato in una coscia, dentro la bocca? Cosa resta dell’amore sconfinato se ha denti marci e gambe divorate dalla cancrena? Che me ne faccio di tutto quell’amore che m’ha riempito per anni i polmoni, se adesso non respiro? Mi manca l’aria, lo spazio, la casa, la libertà, Bologna, il terrazzo, la gatta, il gelato di Gianni, i miei alunni – moltissimo – e quel modo garbato e sensato di gestire lo spazio e il mangiare, il bere, il vivere che è tutto italiano. Odio questo buco nero sprofondato nel Vermont che mi fa desiderare la fuga. Non mi era mai successo, così tanto e così forte. Poi siccome ognuno è com’è e una non si può mica scrollare di dosso la gaiezza se è gaia, finisco per innamorarmi di una sedia a dondolo scrostata sotto il muffoso portico; o dell’insegna verde, rossa e viola di Billy T che vende waffle fries. Mi piacciono i cerbiatti che appaiono come silenziosi portatori di una qualche verità in mezzo alle strade immote del campus: ci guardiamo fissi negli occhi, ogni volta, e ci riconosciamo – credo – come temporanei abitanti di questo angolo di mondo. Alla fine, se la bocca la tieni chiusa, il sorriso funziona sempre e non lo vedi che dentro mancano i denti. Sicché si continuano a scattare foto di ritagli felici, a scegliere quello che ci fa stare bene – gli amici, i panini, i ponti sui fiumi – in mezzo al nulla, a ringraziare perché anche gli amori più grandi e più sbagliati sanno sempre come scuoterti per le spalle e rimettere in prospettiva quello che hai, che sei. E che vuoi. Grazie, Bennington, che m’insegni quanto i desideri nascondano falle, precipizi, caverne. Non smetterò certo di caderci dentro; e mi lamenterò ancora, mi sentirò comunque divisa in due, spezzettata; ma forse saprò perdonare – a me e all’America – la dolorosa contraddizione di cui siamo fatte.

Con ottusa cecitàultima modifica: 2022-08-09T19:35:59+02:00da capecchi
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